Spiritualità

Giove Alchemico

Confronto tra Alchimia, Astrologia e Mito

di Francesca Piombo


“L’intima natura di ogni cosa può essere conosciuta mediante i poteri della vista interiore, o seconda vista. 
Sono questi i poteri da cui possono essere scoperti tutti i segreti della natura”.

Paracelso


clip_image002[3]Giove è da sempre il simbolo astrologico dell’ottimismo e del bisogno innato che c’è nell’uomo di migliorare se stesso, di non accontentarsi, di crescere.

Pianeta di Fuoco e Signore del Sagittario e dei Pesci, messo in analogia con i viaggi ed il lontano, col cibo e la vista, nonché spartiacque tra i pianeti personali e quelli interpersonali, Giove è l’archetipo della fiducia, della certezza interna che c’è nell’uomo di poter trovare le ragioni superiori della sua esistenza sulla terra, l’importanza del suo progetto individuale, nonché la speranza di poterlo realizzare al di là di ogni ostacolo e difficoltà. Per questo è anche il simbolo della capacità di affidarsi a qualcosa di superiore che possa ampliare i confini del proprio mondo più ristretto per spaziare verso nuovi orizzonti che possano favorire questo bisogno innato di crescita ed espansione.

È per questo che Giove è anche collegato alla religiosità della vita, dove il termine “religiosità” non rimanda necessariamente ad una fede o a un credo da seguire o a dogmi da rispettare quanto ad una filosofia di vita che permetta, anche nei momenti più bui, di guardare lontano senza perdere il contatto con se stessi, con la propria umanità; solo così si avrà la possibilità di “re-ligere” e cioè riunire gli opposti interni, le ambivalenze ed i dubbi che coabitano nell’animo umano, che riusciranno così a trovare una sintesi proprio grazie alla fiducia e allo spirito positivo che infonde Giove.

Zeus, il re degli dèi

Nel mito, Giove, Zeus presso i Greci, si affianca all’altro grande modello archetipico della creazione, Saturno Cronos, il dio del Tempo.

Esiodo nella sua Teogonia ci riporta come Urano, il Padre Cielo, si univa continuamente con Gea, la Madre Terra, generando figli che a lui sembravano sempre non solo imperfetti, ma addirittura mostruosi: i Titani, i Ciclopi e gli Ecatonchiri, giganti orribili con cento braccia.

Quando un oracolo gli profetizzò che uno dei figli lo avrebbe detronizzato e si sarebbe insediato al posto suo togliendogli il potere, Urano decise di esiliare i Titani e i Ciclopi nel Tartaro, un luogo di pena e di espiazione e per impedire ai nuovi figli di nascere li costringeva a restare sepolti nelle viscere della Madre Terra.

A quel punto Gea, non sopportando più il peso di questa situazione, si rivolse al figlio Cronos, uno dei Titani che, ribellandosi al padre, lo castrò ed iniziò a regnare al posto suo.

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Divenuto a sua volta padre, Cronos, anche lui avvisato da un oracolo della perdita del potere ad opera di un figlio, peggiorò il comportamento del padre perché non si limitò a tenere i figli avuti dalla sorella Rea dentro le viscere materne, ma addirittura li divorò, tenendoli ingoiati nella sua stessa pancia.

In ordine Cronos divorò Estia, Demetra, Hera, Ade e Poseidone.

Inorridita da questo modo di fare, Rea decise di nascondergli l’ultimo nato Zeus, sostituendolo con una pietra che diede da ingoiare a Cronos; allontanò quindi in fasce il neonato, perché fosse allevato altrove e non subisse la stessa sorte iniqua capitata ai suoi fratelli.

Una volta adulto, Zeus tornò per liberare i fratelli ingoiati: squarciò infatti la pancia del padre e tirò fuori uno ad uno gli altri dei, da cui fu proclamato unico Signore e massima divinità dell’Olimpo tutto.

Nel mito stesso quindi, Giove è messo in analogia non solo alla capacità di andare oltre le restrizioni della condizione umana che la vita impone e che posssono inibire l’espressione del Sè, ma soprattutto alla liberazione di cui l’uomo può fare esperienza proprio nel momento in cui individua il suo ideale, ciò in cui credere e per cui lottare; solo a quel punto potrà credere in se stesso, nei suoi potenziali e nel suo spirito positivo e liberarsi di tutto ciò che non è in linea col destino che la sua anima ha scelto.

Non a caso, nella guerra contro i Titani e il padre Cronos, Zeus fu aiutato da un’aquila, simbolo indiscusso di libertà, di volo tra gli spazi aperti, nonché ponte tra il mondo materiale e quello spirituale, tra la Terra e il Cielo, così come l’archetipo Giove simboleggia.

L’aquila che è spesso rappresentata a fianco del dio, è l’unico animale che può fissare senza timore il sole; con la sua vista lunga ed acuta, guarda dall’alto e punta la preda, come a significare che è la visione dall’alto che Giove assicura a dare senso e significato alla propria vita.

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E’ per questo che in astrologia il pianeta è anche collegato al desiderio, tanto quanto Venere; sappiamo come Zeus avesse un rapporto particolare col mondo femminile. Sposo di Hera, sua moglie ufficiale, non si asteneva dal desiderare le donne più belle, che seduceva e possedeva sotto le forme più svariate, metafora della necessità dell’incontro tra maschile e femminile, tra Animus e Anima, tra Logos ed Eros.

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Il viaggio dell’eroe

Nell’illustrare “Il Viaggio dell’eroe”, simbolicamente messo in analogia col viaggio che deve compiere l’uomo alla ricerca di se stesso, la psicologia junghiana si sofferma su un punto cruciale, ma anche fondamentale per il compimento dell’intero viaggio: è quando, nel bel mezzo di un momento disperato in cui tutto appare buio e non sembra esserci più speranza; nel momento in cui l’eroe sente come di lottare contro forze tremende e sta quasi per soccombere, è proprio in quell’attimo che si ricorda di avere in tasca un amuleto, una noce, una monetina, un qualcosa datogli da una figura amica incontrata per caso durante il viaggio e che gli consente, nonostante gli attimi terribili che sta attraversando, di continuare a credere di potercela fare.

E’ questo in sostanza ciò che simboleggia Giove, ritenuto giustamente dalla tradizione astrologica “il pianeta della fortuna”, dove per “fortuna” l’astrologia umanistica vede soprattutto la capacità di coltivare un pensiero positivo e costruttivo; è la fiducia nelle proprie intuizioni e non solo nelle proprie idee, è la capacità di cogliere quelle opportunità che la vita presenta perché sostenuti da una forza interiore che non rinuncia alla speranza; la fortuna di Giove permette di andare oltre i limiti di ciò che è noto e sicuro perché la coscienza possa aprirsi a nuove consapevolezze, anche se lontane dalla propria mentalità e da ciò che è stato passato dall’ambiente familiare e dalla tradizione.

Ma l’archetipo di Giove e tutto l’ottimismo che il pianeta infonde, l’entusiasmo ed il bisogno di credere nella vita, la capacità di attingere a questa visione interna che vada al di là della semplice visione esterna perché si serve di un qualcosa che non appartiene al solo mondo dei sensi o alla razionalità, chiede anche che non si superino certi confini, quelli che possano mantenere la persona entro gli spazi di una realistica speranza, senza che ci sia il rischio di trasformare l’entusiasmo in esagerazione, il senso positivo in sopravvalutazione delle proprie possibilità, la lungimiranza in visionarietà, il desiderio in avidità.

Si dice infatti in astrologia che Giove, soprattutto durante i suoi transiti, “dilata quello che trova”, volendo con ciò significare che per godere appieno dei suoi insegnamenti, bisognerà attuare anche un bilanciamento tra l’innata spinta alla crescita ed il senso di realtà, senza farsi deviare da idealizzazioni estreme o aspettative tanto illusorie quanto impossibili.

Giove in alchimia

g Nel processo di trasformazione alchemica Giove occupa un posto fondamentale.

Infatti, se a prima vista il suo significato primario di benessere, crescita ed espansione non sembra trovare apparentemente spazio nell’accostamento con una disciplina di spoliazione e destrutturazione di una forma per arrivare alla nascita di una forma nuova, esaminando da un altro punto di vista i simboli collegati al pianeta, si può concludere che è proprio grazie a Giove che si può compiere l’intero processo di trasformazione, perché non si interrompa il percorso quando – al primo contatto con l’inconscio – subentrino incertezze e timori e venga a mancare la speranza di andare avanti ed oltre sulla strada dell’individuazione.

E’ grazie alla carica energetica di Giove infatti, che noi possiamo riprenderci dopo momenti di sconforto o di dubbio; lui irrompe nel nostro cielo quasi sempre in momenti critici in cui dobbiamo visualizzare, attraverso il simbolo, qualcosa di fondamentale per la nostra evoluzione.

Giove alchemico è quindi il ponte che l’alchimista/Io riesce a vedere nel suo percorso creativo, dopo che si è liberato di tutto ciò che rallentava il suo procedere, dopo che ha alleggerito il suo bagaglio, mettendo a fuoco ciò che lo soddisfa davvero perché in linea con le scelte autentiche suggerite da Venere e dal cuore.

Il procedimento alchemico a lui collegato è quello della sublimatio, e sembra che gli alchimisti abbiano tratto questa parola dal termine greco rhinisma che significa “limatura”. Leggiamo infatti in un testo alchemico: “Se non rendi gli elementi sottilissimi, fino ad essere impalpabili al tatto, non raggiungerai il tuo fine. Se non sono stati macinati, ripeti l’operazione ed assicurati che siano macinati e sottilizzati”.

Non a caso i monaci Zen, quando prendono in considerazione nella filosofia dei loro giardini solo pietra, sabbia e piccole piante, parlano di “scorticare la natura”, simboleggiando la volontà di raggiungere l’essenziale, di puntare al cuore delle cose, perché solo così si può contattare la caldaia interna del fuoco creativo che simboleggia Giove, attraverso quell’atto di coraggio che s’impone per passare dallo stadio Scorpione allo stadio Sagittario, dall’Acqua al Fuoco, dall’ombra alla luce.

La sublimatio alchemica trasforma ciò che è solido in stato gassoso, volatilizzandolo ed elevandolo, dal latino “sublimis”, alto.

Analogamente avviene nel percorso psicologico, come specifica Jung in “Mysterium coniunctionis”: “Ogni volta che un sogno o una situazione di vita vengono interpretati dal punto di vista archetipico, si sta promuovendo sublimatio. Il successo di tali interpretazioni può essere espresso nei sogni per mezzo della liberazione di uccellini in gabbia, o di un qualche altro fortunato movimento a salire”.

In effetti, è solo grazie all’Aria che si può acquistare quello stadio definito da Jung dell’ “Io osservante” che permette alla coscienza di distaccarsi anche per un breve periodo e quindi non identificarsi con le forze che agiscono nell’inconscio ma separarsi da loro così da poterle osservare, senza giudicarle ma provare a padroneggiarle dall’alto.

Scrive Edward Edinger nel suo “Anatomia della psiche”: “La sublimatio è l’ascesa che ci solleva al di sopra delle limitanti complicazioni dell’esistenza terrena immediata. Più in alto si va e più ampia e globale diviene la prospettiva, ma anche ci si allontana dalla vita reale divenendo meno capaci di intervenire su ciò che viene percepito: si diviene spettatori magnifici ma impotenti”.

Non solo ci si eleva quindi, ma si riconosce anche di non poter intervenire, è sostanzialmente un naturale atto di resa all’idea che l’unica depositaria di scelta in quel momento dell’esperienza, sia la vita.

Ne consegue che non si può sublimare nulla che non sia stato prima “umanizzato”, non si può trascendere nulla che non sia stato prima riconosciuto grezzo ed imperfetto e a quel punto, dopo averne preso visione, altro simbolo fondamentale di Giove, messo in relazione al Terzo Occhio degli Orientali, trasceso.

Sublimare è “andare in alto e oltre” dopo aver trovato il giusto mezzo tra le polarità che sono state visualizzate; l’ “in der mitte” junghiano, il “metaxu” greco, il “bardo” tibetano simboleggiano tutti un “non luogo” trascendentale, indispensabile per stemperare gli stati d’animo estremi proprio perché si è conquistata una terza dimensione in cui è possibile integrare gli opposti su una base nuova.

Un vero e proprio snodarsi di voli e discese, di picchi e cadute, intensamente voluti dalla psiche per arrivare ad uno stadio di centratura, perché è nel centro che si può trovare la Verità.

Scrive Jung: “Ascesa e discesa, altezza e profondità, movimento verso l’alto e verso il basso descrivono una realizzazione degli opposti sul piano emotivo, la quale conduce o dovrebbe condurre gradualmente ad un livellamento degli stessi”.

Tutt’altra cosa è la sublimazione nella filosofia freudiana, dove l’impulso istintuale viene represso e incanalato in modo tale da conformarlo alle richieste del collettivo, ma anche all’immagine che abbiamo coltivato di noi stessi; per Jung, sublimare è trascendere l’impulso, non è negare né rimuovere, così come leggiamo: “La sublimatio è parte dell’arte regia di creare l’oro puro. E’ l’opposto di quella che Freud chiama sublimazione: non è un incanalare forzato dell’istinto in un campo di applicazione spurio, bensì una trasformazione alchemica.”

Giove che dipinge le farfalle

L’importanza di questo simbolo, così come tutto il percorso alchemico possono trovare uno splendido compendio nel quadro di Dosso Dossi custodito nel museo di Vienna, “Giove che dipinge le farfalle”, che può confermare ogni tappa alchemica ad iniziare dalla scelta della farfalla, alchemica perché bella dopo aver attraversato lo stadio vile e ripugnante di bruco.

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Il quadro ci presenta il re degli dei completamente assorbito nel dipingere, mentre assistono alla scena altri due personaggi: Ermes, raffigurato con i talari, il caduceo ed il pètaso ed una figura di donna.

Dossi dipinse questo quadro in epoca incerta ma sicuramente collocabile agli inizi del cinquecento, probabilmente su commissione di Alfonso d’Este, signore di Ferrara e comunque in quel periodo in cui fiorivano alla corte dipinti allegorici e di chiaro riferimento all’ermetismo alchemico, che a quel tempo era tenuto in grande considerazione.

Nel quadro, sono ben riassunto tutti i simboli gioviani d’ispirazione e passione creativa, di distacco e contemporanea partecipazione, di Aria e Fuoco, che si possono integrare solo in una condizione di concentrazione su se stessi e nel silenzio, a cui rimandano l’atteggiamento rapito di Zeus, i fulmini temporaneamente abbandonati ai suoi piedi, ma soprattutto il “dito di Ermes sulla bocca”.

I commentatori si sono diffusi molto su questo quadro dove hanno voluto rintracciare soprattutto motivazioni collegate al momento storico del pittore e al suo committente, Alfonso d’Este di cui hanno voluto vedere i tratti nel volto di Zeus.

Quanto alla figura femminile, c’è chi vi ha voluto vedere la personificazione della Virtù che chiede l’intercessione di Ermes presso Zeus per alcune sue recriminazioni nei confronti della Fortuna, chi quella dell’Eloquenza, costretta al silenzio da un Ermes nelle insolite vesti di Arpocrate, il dio egizio del silenzio, che diventa una singolare qualità per Ermes, da tutti conosciuto come “dio della comunicazione e della parola”.

Ma sappiamo che suo è anche l’appellativo di psicopompo, e cioè accompagnatore di anime nel mondo infero; Ermes assume in questo quadro le qualità di Mercurio in Scorpione, o quando il pianeta si lega a Plutone, un archetipo che sceglie il silenzio quando vuole approfondire le cose; riconosce cioè la necessità della concentrazione quando si applica in qualcosa o quando crede che solo dopo essere entrato a contatto col silenzio, la visione diventa chiara, l’esperienza viene compresa, portata dentro ed elaborata e la scelta diventa semplice.

Ed è proprio il silenzio, in piena solitudine, quello che assume un valore di vitale importanza nelle varie fasi del processo d’individuazione, quando – sotto le pressioni dell’inconscio – la mente può restare disorientata per le sollecitazioni irrazionali che salgono da sotto e non si riescono a spiegare.

Nella sacralità del silenzio, si può recuperare quella dimensione psichica che può isolare dai tumulti emotivi e permettere l’incontro con l’inconscio senza che si producano traumi o quei timori che sempre si rivelano al primo contatto tra le due dimensioni; uno spazio intimo e privatissimo in cui l’uomo e la donna possono ritrovare se stessi e toccare la propria anima, senza giudicarla ma semplicemente accogliendola nelle sue sfaccettature.

Il dito di Ermes sulla bocca quindi, potrebbe significare la necessità di operare un’integrazione tra il dentro ed il fuori, tra l’introspezione e l’azione, tra la ragione e l’intuizione, tra il silenzio e la parola, riconoscendo il valore dell’uno e dell’altro a seconda dell’esperienza che la vita propone.

Ma Ermes che invita al silenzio potrebbe anche rimandare alla necessità di tacitare la mente e le sue concettualizzazioni per accogliere l’esperienza senza pregiudizi, senza mettere in moto schemi e forme pensiero che si son fatti automatici senza che ci possa essere la possibilità di ascoltare altre suggestioni. Spostando l’attenzione dal principio di Logos al principio di Eros si può accedere all’intimità con se stessi che apre al potenziale creativo che Giove rappresenta e che potremmo vedere riassunto nel simbolo dell’arcobaleno, da sempre ed in ogni religione ritenuto un ponte tra la Terra e il Cielo.

Solo dopo quest’integrazione, si può cogliere appieno ciò che Giove simboleggia e non rischiare di scivolare in un eccesso di sublimazione, a cui il pianeta espone quando lavora male. In alchimia, ogni operazione portata all’eccesso e non calibrata ha effetti rovinosi; nel caso di Giove, si può arrivare a tutti quei rischi che caratterizzano un Giove leso: ipertrofia dell’Ego, arroganza e presunzione di avere la Verità, incapacità di darsi dei limiti, cecità o abbagli nelle scelte, così che la possibilità del volo, degli spazi aperti a cui ci spinge Giove, della visione alta che non è mai visionaria perché mai dimentica del limite terreno, si vanificano e si sprecano.

Il volo gioviale è quindi possibile solo se c’è la volontà di tornare giù: non ci può essere una reale sublimazione se non intervallata da discese nella materia, perché il movimento verso l’alto fa avvicinare all’Infinito e il movimento verso il basso non fa perdere il contatto con i limiti dell’incarnazione umana.

Lo sciamano è una figura gioviana: il suo volo magico lo innalza al Cielo ma lui non dimentica mai di essere un uomo, consapevole dei suoi grandi potenziali così come dei suoi limiti e proprio per questo in contatto con la Mente Divina.

Una riconciliazione interna che permette di continuare a credere nell’Ordine superiore delle cose perché si è penetrata l’esperienza e se n’è fatto tesoro.

di Francesca Piombo


Bibliografia:
C.G Jung, Mysterium coniunctionis, Opere, vol. 14/1, pp 212-13, Bollati Boringhieri, 1990
C.G. Jung, Psicologia ed Alchimia, Bollati Boringhieri, 2006
E. F. Edinger, Anatomia della Psiche, Simbolismo alchemico nella psicoterapia, Vivarium, 2008
J. Raff, Jung e l’immaginario alchemico, Edizioni Mediterranee, 2001
A. Carotenuto, Integrazione della personalità, Bompiani, 2007 


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