Spiritualità

L’Archetipo del Viandante: Dioniso – Orfeo

di Francesca Piombo

Il Viandante

“Il viaggio verso la scoperta
non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi
ma nell’avere nuovi occhi”.

M. Proust

Nell’Archetipo junghiano del “Viandante” si potrebbero trovare alcune tematiche psicologiche che lo avvicinano ai modelli della mitologia greca, collegati al dio Dioniso e al suo sacerdote Orfeo.

Sia l’archetipo psicologico che quelli mitologici infatti, simboleggiano la tensione innata che spinge l’individuo ad ampliare i propri orizzonti, alla ricerca di altre spiagge in cui poter saziare la sete di conoscenza che è viva dentro di lui, non solo del mondo geografico, ma soprattutto del suo ricco mondo interiore, che lo induce all’incontro con se stesso.

Un archetipo che ritroviamo espresso nella figura dell’Ulisse omerico che, pur avendo dentro di sé la volontà cosciente di ritornare a casa, ad Itaca, dove lo attendono la sua sposa e la sua gente, esprime quella dimensione mitica altrettanto potente che spinge l’individuo a non fermarsi, a continuare il viaggio, perché sa che solo attraverso il movimento e la scoperta di nuovi mondi può colmare gli interrogativi ed i dubbi su quanto di nuovo e sconosciuto ci sia da illuminare del suo complesso mondo interiore.

È per questo che l’archetipo del “Viandante è anche una costante quasi fissa dell’individuo lacerato tra la scelta di una vita convenzionale ed inquadrata secondo gli schemi tradizionali, familiari e sociali più consolidati, che lo spinge ad obbedire a regole collettive per sentirsi integrato e soprattutto accettato dal mondo “normale” e l’imprescindibile spinta ad essere se stesso, ad esprimere la propria autenticità, nonostante il rischio di incontrare sulla via l’emarginazione, la solitudine e il fallimento. Attraverso l’esperienza personale infatti, l’individuo avrà la possibilità di confermare i principi ed i valori del passato oppure metterli in discussione, aprendosi ad un nuovo modo di concepire l’esistenza, spesso totalmente sganciato dal pensiero comune, ma che impregna e rispecchia fino in fondo la sua essenza più vera.

Per questa dicotomia interna, l’archetipo viene spesso vissuto dall’individuo con sofferenza ed inquietudine per l’inevitabile lacerazione che si crea tra il naturale bisogno di normalità che fa sentire integrati ed il riconoscimento di trovarsi spesso calato in una condizione esistenziale di estraneità totale, visto che il risultato delle sue scelte non si allinea a quanto gli schemi convenzionali e collettivi spingono a realizzare, che essi siano riferiti alla vita familiare, a quella sentimentale o alla propria realizzazione professionale.

Scrive C. S. Pearson in "L’eroe dentro di noi”:
“… l’identità del Viandante è quella dell’outsider; nella vita spirituale egli può dover affrontare il dubbio. Spesso infatti gli è stato insegnato che Dio ricompensa una certa obbedienza alle regole e ad un certo comportamento morale tradizionale, che generalmente sono in contrasto con la sua psiche, che si evolve sperimentando."

Nei testi ermetici è presente il concetto per cui il viaggio, il viandante e la destinazione siano la stessa cosa, tanto è irresistibile la spinta alla ricerca che è racchiusa in quest’archetipo: il “Viandante” non può fermarsi, ma il viaggio non è importante per la meta che propone, quanto per l’esperienza che potrebbe offrire sulla via. Per chi si sia identificato in quest’archetipo, è l’ andare lo scopo del viaggio e non l’ arrivare; la meta non è fondamentale ed importante di per sé quanto ciò che si può sperimentare andando verso la meta, a tal punto che quando il viaggio è finito, anche la tensione energetica che sprigiona la ricerca si spegne.

Da qui il “moto perpetuo” che s’incontra nella persona che si sia identificata soprattutto in questa figura archetipica, un individuo che si serve del movimento all’esterno per poter gestire il movimento interno dei molti dubbi che affollano il suo cuore; proprio attraverso il contatto col mondo naturale che su di lui ha un richiamo irresistibile, il “Viandante” tranquillizza se stesso e mantiene il contatto col suo centro interiore, perché attraverso l’incontro con ciò che il viaggio geografico riflette della sua intima natura, avrà la possibilità di compiere un viaggio dentro di sé, rileggere il suo passato analizzando le motivazioni delle sue scelte e, solo dopo questo confronto, potrà impegnarsi per la loro realizzazione senza cadere nel dubbio, perché avrà finalmente definito le sue priorità e ciò che può dare senso alla sua vita.

Scrive Murray Stein, psicologo neojunghiano ne “Il principio d’individuazione”:
“Un processo d’individuazione esige che si mettano in discussione le nostre più importanti certezze culturali e le convinzioni alle quali siamo più affezionati. Questo vuol dire lasciare andare le precedenti identificazioni ed essere aperti ad esplorare ciò che è sconosciuto e spesso sgradevole. Deve esserci un atteggiamento aperto nei confronti dell’Altro e la disponibilità ad entrare in dialogo con quell’elemento straniero. L’elemento estraneo verrà così integrato in noi stessi, ma verrà integrato anche il rimosso, l’oscuro, lo spaventoso e il dimenticato”.

L’errare è quindi sinonimo non solo del bisogno di allargare le proprie conoscenze, ma anche tutto ciò che ancora non si conosce di sé, della propria natura; l’errare presuppone anche il perdersi, che diventa contemporaneamente il prerequisito per ritrovare se stessi, per individuare l’unica destinazione non più geografica ma psicologica, specifica ed personalissima che cerca la propria anima.

Scrive Aldo Carotenuto, psicologo junghiano, nel suo “Integrazione della personalità”: “Non c’è atto trasformativo senza la riesplorazione del passato nel tentativo di comprendere non solo il significato profondo di quanto è stato, ma soprattutto quanto del perduto dirige ancora il nostro andare”.

Nello stesso momento, c’è nell’archetipo un bisogno inconscio di andare oltre il consentito, di assecondare senza porsi limiti la propria fame di ricerca, spingendosi sempre più in alto e trasgredendo a quelle regole naturali e di buon senso che devono essere tenute sempre presenti dalla condizione terrena.

È per questo che l’archetipo si può collegare anche a diversi miti greci, primo tra tutti quello di Prometeo che, proprio per la sua capacità di visualizzare in anticipo ciò che agli altri uomini non era dato fare, trasgredendo ad un dogma preciso, ruba il fuoco sacro agli dei, esponendosi al castigo divino; oppure quello di Icaro, figlio di Dedalo costruttore del labirinto di Cnosso, che avvicinandosi troppo al sole, viene tradito dalle sue ali di cera e precipita in mare.

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Scrive C. S. Pearson in "Riconoscere l’eroe dentro di noi": “Le storie di Prometeo ed Icaro non vogliono scoraggiare la ricerca. Ci mettono semplicemente in guardia contro la presunzione e la superbia, contro il volare più in alto di quanto si abbia la capacità o il diritto di fare. Non è il tentativo di ascendere che viene punito in queste storie, ma piuttosto la presunzione e il non rispetto dei limiti appropriati”.

Dioniso, il dio del vino

clip_image006La spinta inconscia alla sfida e la ricerca di un territorio di frontiera in cui mettersi alla prova; la presa di distanza da un universo di valori che non può essere confermato se non dopo essere stato sottoposto al vaglio personale, si possono ritrovare anche nelle tematiche suggerite dal mito di Dioniso, il Bacco dei Latini, il Viandantee lo “Straniero” per eccellenza, dio del vino, dell’ebbrezza e della trasgressione, così come della salvezza e della liberazione; un archetipo anch’esso messo in relazione al desiderio di sconfinare in dimensioni più allargate della conoscenza che possano riempire quel senso di vuoto e d’inquietudine con cui l’uomo combatte da sempre e che è strettamente collegato alla sua condizione di creatura terrena, fallibile e in cerca di risposte.

Un modello che si colora degli eccessi del dio, simbolo dell’estasi amorosa ma anche della follia e dell’ossessione; della fusione e condivisione emotiva, ma anche del distacco e della fuga, bisogni contrari ed opposti che non sono altro che lo specchio del bisogno di mediare tra le molte tensioni ed i paradossi che tormentano l’animo umano quando sia costretto ad incontrarsi col regno dei contrari: il coraggio e la paura; la forza e la fragilità; la passione e l’indifferenza; la libertà e l’appartenenza, la norma e la trasgressione.

Scrive C.S. Pearson in “Risvegliare l’eroe dentro di noi”: “Paradossalmente è solo quando siamo giunti a comprendere l’impossibilità di considerare una cosa qualsiasi per certa, dato che siamo tutti assolutamente prigionieri della nostra soggettività in un universo dove tutto è relativo al contesto, è solamente allora che possiamo abbandonare la presa, smettere di affannarci, per conoscere e lasciare che la verità entri nella nostra vita come un dono”.

clip_image008Il mito della nascita di Dioniso, il “nato due volte”, ha più versioni, di cui la più diffusa narra di come sua madre, la principessa Semele, dopo essere stata amata da Zeus ed ingannata dalla gelosa Hera, fosse stata dal dio stesso incenerita perché impreparata a sopportare la vista della folgore divina. A quel punto Zeus, impietositosi e soprattutto per permettere al bambino che Semele aveva in grembo di nascere nonostante la fine della madre, lo aveva cucito all’interno della sua coscia, come se fosse un’incubatrice, consentendo così a Dioniso di venire alla luce, quando fosse giunto il tempo.

Una volta nato, il piccolo dio era stato allontanato per sfuggire alla vendetta di Hera ed allevato sui monti dell’Arcadia da alcune ninfe, crescendo a contatto col centauro Sileno che gli aveva insegnato l’arte del vino, ma soprattutto era stato introdotto dalle ninfe alla sensibilità del mondo femminile, affinando il carattere e crescendo in un’atmosfera di grazia e sensibilità, a tal punto da essere definito da Euripide Gynnis “dalle forme di donna”.

Alla sensibilità e alla dolcezza tipicamente femminili, in Dioniso si affiancavano doti di grande virilità, forza vitale e coraggio, che ebbe modo di mostrare durante le molte campagne belliche che costellano il suo mito; infatti, una volta adulto, il dio aveva iniziato una vita errabonda, sempre alla ricerca di nuove avventure in cui cimentarsi come valente guerriero e cacciatore, costantemente contornato da Satiri e Baccanti, con i quali condivideva quegli eccessi che avrebbero poi caratterizzato l’ossatura del suo mito.

La tematica dei contrari

I racconti che ce ne fanno gli storici infatti, riportano episodi in cui lui sfidava costantemente l’ordine costituito per portare un impulso vitale e istintivo lì dove vigevano regole rigide e precostituite, dove imperava un allineamento a valori e consuetudini patriarcali che il modus vivendi del dio minava alla base, instillando smanie di trasgressione lì dove l’ordine costituito si stava facendo asfissiante.

Uno scontro tra il vecchio e il nuovo che troviamo ben espresso dagli archetipi astrologici di Saturno e Urano, pianeti messi in relazione al desiderio che spinge l’individuo a rendere stabile e strutturata la sua vita ed il contemporaneo bisogno d’innovazione, di aria nuova da apportare lì dove c’è il rischio che la struttura si fossilizzi, bloccando il flusso vitale.

Dioniso è il “dio dell’ossessione”, della spinta ad immergersi senza paura in ogni esperienza che, tanto più è estrema, quanto più è ricercata. Dioniso è il simbolo dell’estasi e della disperazione che si provano nell’attimo in cui si rivelano gli opposti, il cui superamento permette all’energia psichica che si sprigiona grazie al loro contatto di andare oltre la sofferenza di quella rivelazione per giungere ad una sintesi nuova, uno stadio di mezzo dell’essere che risulta così totalmente centrato, trasformato e rigenerato.

La stessa pratica del vino, simbolo dionisiaco per eccellenza, rientra in questa tematica di ricerca di quel “non luogo” psichico dove è possibile tentare questa ricomposizione, la funzione trascendente junghiana, a tal punto che il vino nel mito dionisiaco assume un valore religioso, dal latino “re-ligere” e cioè riunire gli impulsi contrari e troppo a lungo repressi senza temerli, con lo scopo di poter trovare un bilanciamento ed un giusto mezzo che possa ricomporli senza ricorrere alla negazione di uno dei due poli, attraverso la proiezione.

Per lo stesso motivo è legato al dio anche il tema dell’apparizione e sparizione improvvise, quando al culmine dell’estasi più rapita spariva tra le acque del mare, occultandosi agli occhi di tutti; una tematica ben rintracciabile nell’uomo e nella donna in cui sia vivo questo modello divino di esprimere sia la profonda sensibilità e capacità di sintonizzarsi su dimensioni estatiche dell’esperienza, sia la volontà di distanziarsene per l’incapacità di sostenere la potenza ma anche la continuità di queste emozioni, che chiedono tempo per essere visualizzate, riconosciute ed integrate nella coscienza.

Tra le molte versioni collegate alla sua nascita, in quella che vede Zeus affidarlo ai Cureti per sottrarlo alle ire della moglie, si racconta come da bambino fu attirato dai Titani che, per punirlo di aver rubato loro uno specchio, lo fecero a pezzi, fin quando Athena interruppe lo scempio, prese il cuore di Dioniso, lo rinchiuse in una teca, regalandogli l’immortalità. Le sue ossa furono raccolte e sepolte nel tempio di Apollo a Delfi, mentre sui Titani infierì la folgore di Zeus fino a quando non ne furono inceneriti.

Dioniso, il nato due volte

L’epiteto del dio “il nato due volte” può simboleggiare il passaggio iniziatico obbligato che dovrà affrontare l’individuo per arrivare all’unità psichica passando dallo stato cosciente a quello inconscio dell’essere per poi ritornare alla coscienza, dopo che l’Io si è ricongiunto col Sé, obiettivo finale del percorso d’individuazione.

Un traguardo che potremmo definire mistico, dove non c’è più separazione ma comunione tra l’Io e il Sé, in uno stadio di completezza finale che Jung definiva “il farsi totale dell’uomo psichico”.

Si può comprendere quindi quanto sia indispensabile alla coscienza l’esperienza della dimensione “Dioniso” che può permettere all’individuo di conoscere la Verità, di rientrare in contatto con la propria autenticità e, proprio per questo, specificità ed unicità.

Non a caso, il dio veniva anche venerato come “il dio della Verità” tanto che, nel vaso François di Firenze (570 a.C.), dove figura in processione accanto a tre figure femminili, a lui è riservato il privilegio della frontalità. Il suo messaggio appariva sempre diretto e chiaro, come a voler significare che solo dopo essere passato attraverso il contatto col duale, l’individuo potrà risolvere anche i conflitti interiori e finalmente scegliere con coraggio ciò che desidera realizzare.

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D’altra parte, se si va alle origini del mito, Apollo e Dioniso non erano divinità contrapposte tra di loro ma complementari: erano infatti venerati come divinità fondamentali da accogliere ed onorare, perché archetipi entrambi indispensabili all’uomo per raggiungere l’equilibrio interiore. Apollo, dio del sole e simbolo del pensiero lineare, insegnava il distacco dalle passioni e la tensione alla chiarezza mentale, Dioniso, emotivo e carnale insegnava il contatto col corpo, con l’impulso e l’istinto vitale: due dimensioni che per gli antichi greci non potevano prescindere l’una dall’altra, tanto che la tomba di Dioniso si trovava nel santuario dedicato ad Apollo a Delfi, dove entrambi gli dei erano venerati con pari dignità, il primo durante i mesi invernali e il secondo per il resto dell’anno.

La negazione delle caratteristiche dionisiache a favore di quelle apollinee trova un chiaro passaggio nella leggenda di Procuste, il mitico personaggio che sostava davanti alle porte di Atene ed obbligava chi volesse entrare nella città divina, simbolo degli ideali collettivi da seguire, a stendersi sul suo letto per testare se fosse degno o meno di entrare tra coloro che erano considerati i migliori della comunità ateniese.

Procuste ne misurava la lunghezza allungando le membra se risultavano corte ed accorciandole senza pietà se superavano le dimensioni del letto.

E’ il chiaro riferimento al fatto che per sentirsi adeguato alle richieste del collettivo di una società ideale, giudicata perfetta ed uniformata a certe convenzioni, l’Io civilizzato potrà essere costretto a rinunciare a molto della propria autenticità e a modellarsi su quelli che sono le pressioni del pensiero collettivo. Qualsiasi cosa della propria essenza appaia inaccettabile agli occhi degli altri o troppo avulsa dai modi di comportamento scelti dalla massa che fanno sentire “normali”, verrà sacrificata sul letto di Procuste, per non passare attraverso la vergogna, il rifiuto e l’emarginazione.

Nelle donne, questa “mutilazione” potrebbe riguardare la non accettazione della propria femminilità quando venga vista come un peso, una limitazione all’espressione di sé o quanto meno un impedimento a raggiungere quei riconoscimenti che il patriarcato ha voluto proprietà esclusiva del mondo maschile dalla notte dei tempi e negli uomini potrebbe comportare la non accettazione della propria sensibilità, del proprio mondo emotivo, sempre visto con diffidenza perché è pensiero comune che le emozioni e l’espressione dei sentimenti non siano appropriati alla natura razionale e controllata dell’uomo.

clip_image012Ma che sia stato proprio Teseo, eroe dell’Attica, a sconfiggere Procuste, infliggendogli la stessa pena a cui lui sottoponeva gli sventurati che volevano entrare ad Atene, è il simbolo della difesa coraggiosa dei valori personali che l’individuo non avrà timore di fare, una volta che abbia riconosciuta la propria unicità e l’importanza della specificità del suo contributo da trasmettere al mondo.

L’archetipo Dioniso si attiva anche quando qualcosa dell’essenza primaria è andato perduto. Infatti, via via che si va avanti nella vita, che si fanno esperienze piacevoli e gioiose oppure difficili e dolorose, l’essenza originaria può cambiare e assumere caratteristiche nuove fino a diventare completamente diversa da ciò che era all’inizio. L’individuo può diventare sempre più succube del giudizio collettivo, che inizierà ad esprimersi già nell’infanzia attraverso le imposizioni genitoriali e poi via via attraverso coloro con cui lui entrerà in contatto a livello profondo e che lo metteranno di fronte al l’esigenza di fare delle scelte, spesso col risultato di mentire a se stesso pur di non perdere accettazione ed amore.

E’ per questo che la perdita di queste parti originarie va spesso di pari passo con la perdita di quanto di più spontaneo ed autentico c’era nel suo profondo, quanto lo rispecchiava nell’essenza fondante della sua personalità. Contemporaneamente, mentre si perde spontaneità e il contatto col centro interiore, si aggiunge molta sovrastruttura, spesso nuove interpretazioni e convinzioni per proteggere l’Io dall’incontro con le parti negate; si arriva ad un punto in cui c’è più sovrastruttura che struttura, la verità sembra perduta, la propria natura, snaturata, il divario con l’essenza originaria si fa gigantesco e quindi gigantesco è il divario tra ciò che si pensa di essere e ciò che si è, ma anche tra ciò che si sarebbe potuto diventare se si fosse rimasti fedeli a se stessi, all’essenza della propria natura, alla propria Verità.

Per fortuna, nella psiche profonda, nella parte più sapiente di noi, che non è collegata soltanto alla conoscenza delle cose o all’intelligenza della mente, c’è una forza arcaica ed innata che ci spinge verso il rispetto di noi stessi e della nostra verità, ci spinge verso l’individuazione, per farci esprimere quanto d’innovativo possiamo cogliere nel percorso di vita, ma anche quanto di autentico e creativo c’era della natura originaria che è andato perduto.

Forse è per questo che i monaci Zen, quando prendono in considerazione nella filosofia dei loro giardini solo pietra, sabbia e piccole piante, parlano di “scorticare la natura”, simboleggiando la necessità di ritrovare l’essenziale, di puntare al cuore delle cose, perché solo così si può essere certi di non tradire se stessi e quanto di valido e vero si può portare come contributo al mondo.

L’invito alla completa conoscenza di sè che si leggeva scritto sul tempio di Apollo a Delfi (γνoθι σεαυτόν gnosi se auton, conosci te stesso) lo ritroviamo anche in molte delle discipline orientali, ma forse con una differenza sostanziale: non ci si può conoscere se non ci si ri-conosce, a tal punto che indispensabile per questo viaggio di conoscenza diventa il cammino a ritroso, un “tornare indietro”, che diventa lo strumento ideale per rivedere la propria vita ed operare quei cambiamenti che si rendono necessari per non scivolare verso il cinismo, la disillusione e la perdita d’umanità, riappropriandosi di tutte quelle parti creative che un difficile passato ha congelato e murato nell’inconscio.

Leggiamo ancora Carotenuto: “Bisogna comprendere l’importanza di questo processo di autoconoscenza, il quale procede seguendo un percorso, per così dire, a spirale. Esso non è mai un dipanarsi lineare di sola ascesa, ma un procedere vario che comporta anche l’arresto o la retrocessione, il ritorno ai luoghi delle origini della propria “archè”, quel “da dove” che spiega e chiarifica il nostro “andare verso”.

Dioniso, il liberatore

E’ per questo che il mito dionisiaco non è solo collegato alla follia e alla trasgressione, al caos e alla disperazione, ma anche alla salvezza e alla liberazione.

Dioniso è “il grande liberatore”.

Dalla prigionia degli Inferi infatti aveva liberato la madre Semele, che fu poi accolta tra gli dei dell’Olimpo e a lui si deve anche il gesto umano di aver salvato Arianna, la figlia di Minosse che, dopo essere stata abbandonata sull’isola di Nasso da Teseo, era stata riportata dal dio alla gioia di una nuova vita.

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La presenza e l’importanza delle figure femminili è una costante del mito dionisiaco, quasi a sottolineare come l’ ”Anima” femminile dell’uomo possa crescere proprio attraverso il contatto con dimensioni psichiche più sottili, tipiche della sfera femminile/Eros e che sono più difficili da contattare da parte dell’individuo che si sia concesso di vivere solo l’archetipo virile e competitivo che la tradizione mitica collega al dio greco Ares, la qualità più diffusa e collettivamente apprezzata del modello maschile.

Questa comunanza ed affinità col mondo femminile tipica dell’archetipo dionisiaco, è anche rintracciabile nella figura dello sciamano delle società tribali, il quale – attraverso una condizione d’estasi – andava oltre la razionalità, oltre il mondo del pensiero ed entrava in contatto con forze e presenze ignote, con energie più profonde, intuizioni e visioni, proprie del mondo femminile più che di quello maschile, che gli permettevano di attuare un’opera di mediazione ed intercessione tra il maschile ed il femminile, tra la razionalità e l’impulso, tra la logica e l’intuizione, tra il corpo e lo Spirito, tra la Terra e il Cielo.

Mircea Eliade che definisce lo sciamano “signore del fuoco”, nel suo “Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi”, scrive : “L’ascensione e il volo magico hanno un posto di prim’ordine nelle credenze popolari e nelle tecniche dell’India. Infatti, innalzarsi negli spazi, volare come un uccello, superare fulmineamente distanze immense, scomparire, sono tra i poteri magici che il buddismo e l’induismo riconoscono agli arhat, ai re e ai maghi. L’estasi sciamanica può essere considerata come una riattualizzazione di quel tempo mitico nel quale gli uomini potevano comunicare in concreto col cielo”.

Dioniso è il simbolo della prova iniziatica che cerca l’anima di chi voglia rinascere, ma una rinascita è possibile solo dopo che si sia lasciata andare quella parte di sé non più in linea con la Verità rivelata.

A te che sei tutto e di tutto l’estremo contrario
non è facile levare il canto per i molti tuoi doni
e gli insondabili abissi tra cui ti nascondi.
In te e solo in te si confondono regni lontani
quando dei, animali e piante e per ultimo l’uomo
s’intrecciano inestricabili tra le onde dei
tuoi capelli danzanti.
Tu che radici hai profonde nell’oscura ed umida terra
Tu della vita ci conduci ai confini
dove la nera soglia delle tue grandi pupille
ci invita con riso dolente ad inoltrarci in oscuri sentieri
che non hanno ritorno se la dolce promessa
del tuo eterno rinascere
non ci accompagna più amica.

(Dall’Inno a Dioniso di “Omericchio”)

Orfeo, musicista e poeta

Queste tematiche mitiche che vedono in Dioniso un dio di frontiera, straniero, viandante, guerriero e in contatto con le forze della natura, che potrebbero trovare un riscontro astrologico nel binomio Marte/Nettuno, Marte in Sagittario, Marte in Pesci o Marte nel nono e dodicesimo settore dell’oroscopo, sono presenti e pienamente riconfermate anche dal mito di Orfeo, sacerdote di Dioniso e figlio di Apollo, nato dall’esigenza del Greci dell’età classica di dare un volto alla necessità di trovare un “ponte” tra le due divinità, ma anche al primato che attribuivano alla tensione verso il distacco e la ragionevolezza che esprimeva il dio Apollo.

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Orfeo, eroe dionisiaco per eccellenza, è anche lui inserito in imprese tirate al limite del possibile e in quel territorio di confine dove vengono testate le capacità dell’umano potere, nonché la capacità di porsi dei limiti.

Lo ritroviamo infatti nel “Viaggio degli Argonauti” per la conquista del “Vello d’Oro”, ricordato dalla mitologia classica come un’impresa impossibile per le prove insormontabili che presentava, ma ancora una volta come archetipo della lotta interiore e dello Spirito indipendente che spingono l’uomo a rompere con gli schemi del passato che devono essere rivisti e, solo dopo quest’analisi, accolti perché ancora validi ed importanti per la propria realizzazione, oppure lasciati andare perché non più in linea con la totalità rivelata.

Ma Orfeo non è solo straniero in quanto proveniente dalla Tracia come Dioniso, non è solo viandante e guerriero, ma è soprattutto artista e musicista; in qualità di cantore e poeta, nei suoi viaggi incantava chiunque si incontrasse con la sua musica sublime, una musica che guariva, che permetteva uno stato conclusivo di catarsi che riconciliava la testa col cuore, ma anche gli impulsi più sfrenati col bisogno di spiritualità. Il padre Apollo infatti, gli aveva donato la lira con cui lui deliziava se stesso e tutta la Natura, che risultava come risanata dal suo benefico canto.

E’ quindi una figura dionisiaca perché simbolo della rigenerazione che può derivare dal contatto con la Natura e con l’impulso vitale, ma anche apollinea perché in grado di controllare le forze istintive e selvagge attraverso il potere terapeutico del canto e della musica, dell’armonia e della bellezza del Creato.

Ma così come Dioniso, anche Orfeo dovrà passare attraverso uno smembramento, secondo una tematica presente in molti miti antichi; infatti, il passaggio più forte e conclusivo del suo mito è strettamente collegato ad una trasgressione, al rifiuto che lui oppose ad un ordine divino, di cui pagò il prezzo con la sua tragica fine.

Perdutamente innamorato della ninfa Euridice, lui sperimenterà quasi contemporaneamente il pieno e il vuoto che fanno parte dell’archetipo dionisiaco quando dal momento di massima gioia che proverà nell’unirsi alla sposa coronando il suo sogno d’amore, precipiterà nella disperazione più cupa quando, subito dopo le nozze, Euridice morirà per il morso di uno serpente e verrà portata all’Ade.

Il pianto di Orfeo sarà talmente struggente e dolce ed inconsolabile che tutta la natura sembrerà piangere con lui, a tal punto che si impietosirà lo stesso Ade, che gli concederà di scendere nell’Oltretomba per ricondurre Euridice alla luce.

clip_image018Ma Ade lo avvertirà: una volta trovata la sposa, Orfeo dovrà procedere sulla strada del ritorno senza voltarsi, pena la perdita definitiva dell’amata. Ma Orfeo non ubbidirà e si volterà e perderà la prova, perché non riuscirà a fidarsi dell’insindacabile operato divino.

Quasi prossimo all’uscita, mentre dimentica in un attimo le parole di Ade e si affretta quasi correndo per guadagnare terreno, non sentendo più i passi dell’amata che sapeva dietro di lui, Orfeo si volta perché vuole accertarsi che lei lo stia seguendo, che sia ancora lì, che non sia svanita.

Il voltarsi di Orfeo ed il contemporaneo dissolversi della figura di Euridice rimarrà per sempre nell’immaginario collettivo come l’archetipo dell’impossibilità di raggiungere un obiettivo che si pensava certo, perché non ci si è aperti anche alla fede nell’imponderabile, che impregna ogni respiro dell’esperienza umana.

Questo accade spesso quando il principio di Logos non mediato dall’Eros finisce per distorcersi, si ostina a voler spiegare anche l’inspiegabile, a tal punto che Orfeo scruta, diffida, sospetta e rifiuta tutto ciò che non è inquadrabile in un’ottica razionale, alla ricerca ossessiva di motivazioni e nessi causali che abbiano un senso.

E’ quindi la sfiducia di Orfeo che condanna Euridice all’Ade perché si fida solo di se stesso e di quello che rimandano i sensi: la vista, l’udito, il gusto, l’olfatto, il tatto. Solo quello che organizza la mente razionale può essere degno di fiducia perché c’è al di sopra di tutto la presunzione o l’illusione di potersi fidare di ciò che si può controllare con la volontà, col sapere o con la semplice forza del pensiero.

Orfeo, l’unico ad essere sceso all’Ade per amore, lui che era riuscito ad insegnare attraverso la musica la necessità di onorare la Natura, lui che aveva insegnato “la competenza dei sentimenti” da affiancare a quella della ragione per non sminuire le umane potenzialità, non saprà rinunciare all’illusione di potenza ed il prezzo che lui pagherà sarà altissimo: perderà Euridice e morirà smembrato dalle Menadi che, offese dalla sua fedeltà al ricordo della sposa, lo faranno a pezzi e lo getteranno nel fiume Ebro.

Ma la sua testa che cadrà sulla lira continuerà a cantare Euridice galleggiando fino all’isola di Lesbo, dove verrà raccolta dalla pietà delle Muse e sepolta nel santuario di Dioniso, mentre Apollo decreterà l’immortalità della sua lira ponendola tra le Costellazioni.

Non a caso la Bilancia è il segno zodiacale che decreta il passaggio dalle Case astrologiche sotto l’orizzonte a quelle superiori, realizzato solo dopo che si sia compiuto il progetto astrologico dei Segni mobili, dove il bisogno di ordine e di regola della Vergine, l’amore per lo scambio intellettivo dei Gemelli e la spinta alla ricerca che è viva nel Sagittario possono trovare una sintesi nel sentimento di compassione ed Amore Universale a cui tende il dodicesimo ed ultimo segno zodiacale, i Pesci, in cui si compie e trova un senso l’intero viaggio astrologico.

di Francesca Piombo

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Bibliografia:

– Jung C.G., Riflessioni sull’essenza della psiche”, “Opere”, volume 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976
– Pearson C.S., L’eroe dentro di noi, Sei archetipi della nostra vita, Astrolabio Ubaldini, Roma 1990
– Pearson C.S., Risvegliare l’eroe dentro di noi, Astrolabio Ubaldini, Roma 1992
– Bolen J.S., Gli dei dentro l’uomo, Astrolabio Ubaldini, 1994
– Eliade M., Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974
– Stein M., Il principio d’individuazione, Moretti & Vitali, Bergamo 2010
– Carotenuto A., Integrazione della personalità, Bompiani, Milano 2007


 

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