Spiritualità

Cerchiamo o scappiamo?

James HillmanLa domanda è molto delicata, ma non possiamo fare a meno di continuare a porcela. È troppo importante. Anche il noto psicoterapeuta James Hillman (il prosecutore del pensiero Jung) ha cercato di indagare la questione con grande profondità e umanità.

Il rischio, infatti, è che sia le psicoterapie che i percorsi spirituali finiscano per far concentrare la persona unicamente nel suo personale mondo interiore, come se la sua relazione con tutto ciò che la circonda sia secondaria o priva di valore; come se le due cose non fossero in realtà le facce di una stessa medaglia.

Immergendosi esclusivamente e rigidamente nella propria interiorità, il fortissimo rischio è quello di ritrovare sempre ottimi alibi – psicologici o spirituali che siano – per continuare ad essere esattamente come sempre: meccanicamente abitudinari ed insensibili alle reali necessità altrui. La trasformazione dei propri significati esistenziali, non coincide con la reale trasformazione della propria esistenza.

Se ci ostiniamo a guardare troppo dentro, non ci guardiamo intorno, e se non ci guardiamo anche intorno, scappiamo dal più sincero riflesso di ciò che ci vive dentro. 

“E nel suo modo folle, la terapia (o alcune filosofie spirituali), enfatizzando l’anima interiore ed ignorando l’anima che è fuori, sostengono il declino del mondo reale”, osserva Hillman. Ma si spinge ancora oltre in un’intervista con un giornalista tratta dal libro “100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”:

Giornalista: Un terapeuta mi disse che la pena che provavo nel vedere un barbone della mia età, in realtà era un sentimento di dolore per me stesso.

Hillman: E occuparsene significa andare a casa e rifletterci sopra. Ecco cosa ha finito per significare occuparsene. E a quel punto sei già passato oltre quel barbone, lungo quella strada.

Giornalista: In parte è anche un modo per tagliare fuori quello che lei chiamerebbe Eros, quella parte del mio cuore che cerca di entrare in contatto con gli altri. In teoria questo è qualcosa che la terapia cerca di liberare, ma poi c’è lungo la strada una persona per la quale provo un sentimento, e si vorrebbe che io mi occupassi di questo sentimento come se esso non avesse nulla a che fare con quella persona.

Hillman: Non potrebbe essere che il lavorare su di sé, faccia parte della malattia e non della cura? Penso che la terapia abbia fatto un errore filosofico con il credere che la cognizione precede la volizione, che il conoscere precede il fare, l’azione. Io non credo che sia così. Credo che la riflessione debba venire sempre dopo l’evento.

Senza un riscontro oggettivo di come siamo, pensiamo ed agiamo, ciascuno di noi potrebbe tranquillamente reputarsi già un santo realizzato. È sufficiente un pizzico di conoscenza e una certa dose di carisma. Tutto il resto non conta, ogni dissonanza tra il predicare bene e il razzolare male potrebbe essere giustificata e ben motivata.

Forse è proprio l’evidenza data dalle nostre parole e azioni a rappresentare il risultato – o lo specchio – dell’effettiva maturazione interiore. Il fine non è “misurare” il livello spirituale altrui né “allenare” il proprio comportamento verso simulazioni celesti sempre più luminose, ma è semplicemente quello di smascherarsi se stessi passo dopo passo attraverso un riflesso ineguagliabile in termini di precisione. 

Anche attingendo dal Vangelo, si legge ripetutamente che l’albero si riconosce “dai suoi frutti”, non “dalla sua linfa vitale interiore che non ha nulla a che vedere con i frutti”. È certamente vero che ogni insegnamento può nascondere diverse sfumature di significati, ma è pur vero che quando la semplicità viene forzatamente ricondotta ad analisi interpretative, rischia di perdere anche una buona dose della sua originale forza e profondità.

È questo il caso della regola d’oro alla base di tutte le religioni: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, dietro alla quale si cerca spesso di scorgere un messaggio che va talmente nel profondo, talmente nell’interiorità, da perdere di vista – ironicamente – tutti coloro che ci circondano.

In un recente post abbiamo citato le parole di Samael Aun Weor, che in un certo senso mettono in guardia da una spiritualità ingannevole e troppo aleatoria, ma gli stessi moniti li ritroviamo in un altro maestro gnostico del nostro tempo, conosciuto con il nome di Jan van Rijckenborgh, nel suo libro “La Gnosi nella sua manifestazione attuale”:

“Un uomo può pretendere di confessare la nuova forma di religiosità senza che ciò corrisponda a un fatto reale; tuttavia, limitandosi a parlarne soltanto senza viverla, rimarrà, nonostante tutte le sue chiacchiere, sotto la legge della vecchia religiosità. […] L’importante non è quello che dite, ma ciò che fate. Si tratta dell’atto autentico della quarta Gnosi, la Gnosi del nuovo comportamento.”

D’altro canto, anche nel concentrarsi esclusivamente sulla propria condotta esteriore ci si potrebbe parimenti ingannare: tentando di imitare un comportamento considerato santo, non si farebbe altro che imitare solo il risultato di un profondo lavoro interiore. Ma, si sa, nessuna maschera indossata potrà durare per sempre (grazie al cielo!).

Che fare dunque? Interiorità od esteriorità? Forse il farle procedere di pari passo potrebbe essere la strada più sicura. Non dimentichiamo la conclusione di Buddha secondo la quale “nel mezzo sta la virtù”. Questa è forse la ragione per cui non si parla mai di tecnica della vita, ma di arte della vita.

Fonte: associazioneperankh.wordpress.com

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3 Commenti

  1. D’accordo sul fare più che sul teorizzare….Ma SAMAEL AUN WEOR??? Il più grande falso maestro che si sia mai visto? Uahahahhhaahah! vabbè citate il mago otelma e avrete più credibilità.

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