Spiritualità

Il culto gnostico della Maddalena

di Sabato Scala
Dal mosaico di Otranto alle basiliche paleocristiane di Cimitile, attraverso opere letterarie ed architettoniche fino agli ultimi custodi, i Catari ed i Templari

Introduzione

In un precedente (doppio) articolo1 dedicato al mosaico di Otranto, intrigante e complessa opera musiva realizzata tra il 1163 ed il 1165 dal monaco Pantaleone della abbazia di Casole, abbiamo proposto un nuovo percorso interpretativo ripartito in due distinte fasi:

a. L’analisi del significato filosofico e teologico della macchina simbolica musiva effettuato attraverso gli stretti (a nostro avviso) legami tra il mosaico e gli scritti gnostici scoperti nel 1945 a Nag Hammadi con particolare riferimento al Vangelo di Filippo.

b. L’analisi del messaggio criptico dell’opera in chiave storica a partire da quello che poteva essere il punto di vista di uno gnostico, quale a nostro avviso era Pantaleone, collocato nel quadro della cultura medioevale del 13mo secolo. In particolare abbiamo illustrato la possibilità di leggere nell’opera un complesso messaggio nascosto che illustra l’origine e la fine della stirpe Merovingia collegandola attraverso leggende medioevali ed eresie di origine gnostica al viaggio di Maria Maddalena in Francia avvenuto dopo la morte di Cristo. In particolare abbiamo evidenziato lo stretto legame tra la corona del mosaico ed i re Merovingi con particolare riferimento a re Dagoberto II di Austrasia del quale vengono, a nostro avviso, chiaramente indicate la data di morte, le modalità, le cause ed il mandante del suo assassinio.

In questo nuovo lavoro proporremo un viaggio attraverso i documenti che avvalorano la chiave interpretativa storica proposta nella seconda parte del precedente articolo. Avremo occasione, proprio a partire dai suggerimenti che nascono da questi documenti letterari ed architettonici, di ampliare il quadro dell’analisi ed approfondire alcuni elementi simbolici dell’opera di Pantaleone non completamente sviscerati. Prima di procedere, però, in questo nuovo viaggio attraverso l’opera, segnaliamo l’imminente, uscita del nuovo lavoro dell’amico Corona2 che ha, ormai un anno fa, ispirato le nostre ricerche ma che propone un percorso interpretativo radicalmente diverso dal nostro individuando nella chiave spirituale più che in quella teologico-politica il metro di lettura del simbolismo musivo. Il nuovo lavoro del Corona ricostruisce lo sfondo culturale in cui si forma l’opera di Pantaleone soffermandosi su interessanti aspetti quali la preghiera isicastica basiliana e l’ebraismo nell’Italia meridionale del tempo. Singolari sono i paralleli tra alcune raffigurazioni musive e brani danteschi della Divina Commedia.

La Legenda Aurea e la Maddalena

Il più antico documento che propone la incredibile storia della presenza della Maddalena in Provenza dopo la morte di Gesù, è la Vita di Maria Maddalena, opera pubblicata intorno al IX secolo da Rabanus Maurus arcivescovo di Mainz (Magonza), ma il testo che più ampliamente affronta questo tema e che aggiunge maggiori dettagli è di certo la Legenda Aurea scritta nel 1260 da Jacopo de Varagine. Qui di seguito proponiamo una sintesi ottenuta stralciando parti del libro quarto che l’autore dedica alla leggenda della Maddalena3.

Maria Maddalena prende il nome da Magdalo, un castello, nacque da nobile lignaggio e da genitori di sangue reale. Suo padre si chiamava Ciro e sua madre Euchasia. Lei con suo fratello Lazzaro e sua sorella Marta possedevano il castello di Magdalo, che sorge a due miglia da Nazareth e da Betania … In quel tempo all’apostolo S. Massimino, che era uno dei 70 discepoli del signore cui fu affidata la Maddalena per ordine di S. Pietro, in seguito dopo che i discepoli furono partiti, S. Massimino, Maria Maddalena, Lazzaro suo fratello, Marta sua sorella, Marcella serva di Marta, e Santa Cetonia che era nata cieca e che aveva riacquistato la vista grazie al Signore, insieme ad altri cristiani furono catturati dai miscredenti e caricati su una barca priva di remi e timone perché affogassero. Ma la bontà di Dio onnipotente li condusse tutti a Marsiglia … In seguito accadde che il principe della provincia e sua moglie fecero sacrifici per ottenere un figlio e Maria Maddalena che aveva parlato loro di Gesù Cristo gli impedì di compiere quei sacrifici … allora il principe disse io e mia moglie saremo lieti di adempiere a tutte queste cose se tu riuscirai ad fare in modo di farci avere un bambino attraverso le preghiere al tuo dio … il Signore ascoltò le sue preghiere e la donna concepì. Suo marito decise che sarebbe partito per andare da S. Pietro e verificare se era vero ciò che aveva ascoltato dalla Maddalena. Sua moglie … gli chiese di portarla con lui. Dopo che ebbero veleggiato un giorno ed una notte vi fu una grande tempesta … a causa del temporale e della tempesta il bimbo che portava in grembo morì … Ahimè disse, cosa farò? Desideravo avere un figlio e ho perso moglie e figlio … E pensarono che fosse meglio indirizzare la nave verso terra e seppellirlo lì per evitare che fosse divorato dai pesci del mare … Quando giunse da Pietro, egli vide la croce sulla sua spalla e gli chiese chi fosse e perché era giunto fin lì, così egli gli raccontò tutto quanto era accaduto … Quindi Pietro lo condusse a Gerusalemme e gli mostrò tutti i luoghi ove Gesù aveva predicato e fatto miracoli ed il posto ove aveva sofferto ed era morto e dove era asceso al cielo. Dopo che fu ben istruito nella fede da S. Pietro e dopo che furono trascorsi due anni egli ripartì per Marsiglia … Veleggiando sulla rotta di ritorno giunsero, per volere di Dio, nel luogo in cui aveva abbandonato i corpi della moglie e del figlio … Il piccolo che aveva ottenuto grazie a Maria Maddalena si alzò ed andò verso la spiaggia e come tutti i bimbi piccoli, prese delle piccole pietre e le lanciò in mare … Quando il bimbo li vide, non avendo mai visto altre persone prima, ebbe timore e corse a nascondersi sotto il mantello della madre … il padre sollevò il mantello e vide il bimbo che poppava al seno della mamma … Allora prese suo figlio tra le braccia e disse: Oh Maria Maddalena ora io so e credo davvero che sei stata proprio tu a darmi mio figlio, lo hai alimentato e tenuto in vita due anni su queste rocce ora ridonami sua madre e riportala così com’era a me. A queste parole la donna iniziò a respirare e prese vita … Giunsero in fretta a Marsiglia … e trovarono Maria Maddalena che pregava con i suoi discepoli … e le raccontò ciò che era accaduto … ricevette, così, il battesimo da S. Massimino. Distrussero i templi degli idoli a Marsiglia e costruirono le chiese di Gesù Cristo. S. Lazzaro fu scelto quale vescovo di quella città e dopo di ciò si trasferirono ad Aix … e lì S. Massimino fu ordinato vescovo … Egesippo con altri libri di Giuseppe, concordano abbastanza con la storia narrata … .Al tempo di Carlo Magno nell’anno di nostro signore 771, Gerard duca di Burgundia non aveva avuto figli da sua moglie sebbene avesse dato sempre elemosine e avesse costruito molte chiese e molti conventi. Dopo che ebbe costruito l’abbazia di Vesoul, egli e l’abate del convento spedirono un monaco per trovare e portare al convento, se possibile, le spoglie di Maria Maddalena. Quando giunse nella città la trovò distrutta dai pagani … Poi, per fortuna, trovò il sepolcro … quindi egli tornò … Presto il duca ebbe un figlio dalla moglie … Alcuni dicono che Maria Maddalena fosse sposata con San Giovanni quando Cristo lo chiamò dal matrimonio e quando egli fu chiamato via da lei ella si indignò per l’abbandono di suo marito e si diede ad ogni tipo di lussuria, ma poiché non era giusto che la chiamata di San Giovanni fosse occasione per lei di dannazione, nostro Signore la convertì …

Non vogliamo entrare nel merito della attendibilità storica della narrazione, ma è evidente che quest’opera costituisce una incredibile commistione di tutte le tematiche e le leggende, più o meno antiche, che ruotano intorno alla Maddalena. La sua collocazione cronologica non distante da quella del mosaico e la presenza di testimonianze ancor più antiche che precedono di circa 200 anni la data di costruzione del mosaico, ci suggerisce l’esistenza di un complesso substrato consolidato di tradizioni legate alla presenza della Maddalena in Provenza e che certamente erano patrimonio del colto monaco casolano.

Legenda aurea, Jacobus de Varagine

Manoscritto francese prima metà del 14mo sec.
Phyllis Goodhart Gordan Collection

Legenda aurea, Jacobus de Varagine

Nuremberg: Georg Stuchs de Sulczpach, Ottobre 1488

Bryn Mawr College Library’s Collections.

Codice XXXV
sec. XIV, foll. 318
in pergamena (cm 37 x 25)

Vita Diversorum Sanctorum et Praecipue Vita S.ti Eusebii cum Ethimologiae Dictorum Sanctorum Iacobi de Varagine Conservato presso il museo del Duomo di Vercelli

Le ipotesi interpretative avanzate, assumono una dimensione diversa anche osservando lo stretto legame tra il mosaico ed il Vangelo di Filippo, unico apocrifo che propone un legame tra Gesù e la Maddalena che andava ben oltre quello discepolo-maestro (“e spesso la baciava sulla bocca” Vang. Fil. 64,2).

Chi disponeva delle conoscenze esposte così in dettaglio nella Legenda Aurea, delle informazioni intriganti sulla centralità della Maddalena e sul suo rapporto privilegiato con Cristo tratte dal Vangelo di Filippo e comuni a tutta la letteratura gnostica, poteva a ragione collegarle così come abbiamo proposto nei precedenti lavori.

Ma andiamo a vedere nel dettaglio alcuni elementi che riteniamo rilevanti ai nostri fini:

– Nel testo viene chiaramente legata l’origine del nome Maddalena all’ebraico Magdal (torre) attraverso la discendenza della donna da una stirpe nobile ed il fatto che abitava in un Castello. Questa osservazione rende l’immagine della torre un ottimo sostituto simbolico della Maddalena chiaramente comprensibile al pubblico medioevale cui si rivolge Pantaleone. Di conseguenza l’associazione proposta tra la torre di Babele che campeggia nel mosaico e l’albero (simbolo della croce di Cristo nel Vangelo di Filippo) diviene più che legittimo. Non va dimenticato, inoltre, che Pantaleone raffigura una torre di Babele merlata tipica di un castello fortificato.

– La Legenda parla dell’arrivo della Maddalena in Francia e dei suoi rapporti con un principe del luogo legando la fede del principe alla nascita di un figlio dalla moglie sterile grazie alla intercessione della Maddalena. In questo quadro la leggenda sul capostipite della stirpe Merovingia, Mervee, nato dallo stupro della madre di Mervee ad opera del mostro marino denominato Quinotauro, poteva, a ragione, essere collegato alla Maddalena specie stante l’assonanza tra il nome del bimbo (Mervee appunto) e quello di Maria di Magdala.

– Il legame tra la leggendaria origine dei Merovingi, il Sangue Reale (Sang Real – SanGraal) e quindi il sangue di Cristo è avvalorato dalla incredibile storia del ritorno in vita prima del figlioletto e poi della madre. Il figlio, morto e poi tornato alla vita, nasce dal grembo di una madre morta ed in seguito tornata in vita, tutto grazie sempre alla Maddalena. Il bimbo sopravvive miracolosamente, per due anni privo di cibo. La sterilità dell’uomo, e la storia nel suo complesso, collegata al mare ed alla presenza solitaria del cadavere della donna per due anni nei pressi di una spiaggia sconosciuta, poteva essere legittimamente collegato al mostro Quinotauro ed allo stupro della moglie del primo re dei Merovingi fino ad allora rimasto privo di eredi. La mente sottile e teologicamente preparata dal substrato gnostico del Vangelo di Filippo, di Pantaleone, non doveva far altro che ricollegare il “rapporto particolare” della Maddalena con Gesù al bimbo che lo stesso principe riteneva, chiaramente, figlio “spirituale” della Maddalena.

– Il viaggio che il padre della Legenda compie verso Roma e successivamente verso Gerusalemme insieme a Pietro, descrive, chiaramente, l’itinerario di un pellegrinaggio che, in epoca di Crociate, pochi anni dopo la nascita dell’Ordine Templare sorto in difesa dei pellegrini diretti in Terra Santa, assumeva un significato simbolico particolarissimo. Per un uomo, come Pantaleone, folgorato dalla sua visione gnostica dovuta, forse, al possesso di una vasta biblioteca di testi ritrovati durante le missioni dei crociati, immerso e convinto del legame tra i Merovingi ed il Sang Real, vissuto fin da piccolo in una città che era porto fondamentale verso la Terra Santa poteva legittimamente essere visto come il ritorno della stirpe regale di Cristo alla sua terra finalmente riconquistata.

– Il matrimonio tra Giovanni e la Maddalena, precedente la sua chiamata all’apostolato, non fa altro che avvalorare la presenza di voci non ortodosse che ipotizzavano legami tra i discepoli e tra questi ed il Cristo, diversi da quelli puramente spirituali. Possiamo immaginare a quali conclusioni fosse giunto Pantaleone affiancando una simile ipotesi al rapporto stretto tra Gesù e la Maddalena chiaramente indicata nelVangelo di Filippo.

– La Legenda indica in Aix la prima tomba della Maddalena, ma parla anche del trasferimento delle spoglie nell’abbazia di Vesoul nella parte centro orientale della Francia.

– La Legenda riporta anche alcuni miracoli compiuti dalle reliquie della Maddalena collegati sempre, a sterilità miracolosamente risolte e a persone miracolosamente tornate in vita. Il tema della fertilità e della resurrezione è chiaramente vincolato alla Maddalena e di conseguenza è logico ipotizzare un legame più o meno inconscio, tra i poteri miracolosi del Graal in grado di guarire ma anche di resuscitare i morti, il sangue di Cristo ed il grembo della Maddalena. In questo caso, però, c’è un chiaro substrato leggendario, dimostrato dal presente testo, che rende non solo legittimo ma pressoché automatico questo legame.

Una volta legittimato su base documentale, lo sfondo culturale e leggendario che riteniamo abbia guidato Pantaleone nella realizzazione del mosaico, passiamo ad analizzare l’elemento più enigmatico dell’opera: la raffigurazione di re Artù.

La leggenda di Re Artù nei documenti dell’epoca

Il richiamo esplicito alla leggenda arturiana, che nel mosaico di Otranto è segnalata dalla raffigurazione di Re Artù a cavallo di un caprone, non rappresenta affatto un caso isolato nel territorio pugliese, ma è cronologicamente preceduto e seguito rispettivamente, da altre due rilevanti opere architettoniche: la cattedrale di S. Nicola di Bari realizzata tra il 1087 ed il 1108 e lo stupendo ed enigmatico edificio di Castel del Monte realizzato tra il 1240 ed il 1250.

La chiesa di S. Nicola fu edificata per contenervi le spoglie del santo riportate il 7 maggio del 1087 in Italia dalla Terra Santa, grazie ad una ardita spedizione di alcuni mercanti. Le caratteristiche miracolose attribuite alle spoglie del Santo hanno non poche affinità con i poteri di guarigione attribuiti al Graal, ma l’aspetto più interessante di quest’opera è di certo, la raffigurazione di Re Artù insieme ad una rappresentazione stilizzata del nascondiglio della preziosa coppa4. Particolarmente interessante è la raffigurazione dei cavalieri in lotta armati alla normanna con scudo lancia e spadone che combattono ai lati di una costruzione a forma di torre munita di una vistosa serratura. La raffigurazione è stata collegata a quella simile del “Duomo di Peschiera” a Modena che reca i cavalieri del ciclo arturiano indicandone i nomi.

Diverso è il discorso per Castel del Monte. costruzione voluta da Federico II e che la leggenda vuole sia stata realizzata con il solo scopo di tenervi nascosta la preziosa coppa. Che la leggenda sia vera o meno, è certo che il Castello non sembra essere stato costruito né come dimora né come semplice fortezza e lo scopo pratico rimane ad oggi non chiaramente identificabile. La costruzione è ricca di simbolismi esoterici. Una leggenda vuole che i Cavalieri Templari5 avessero affidato il Graal all’Imperatore, affinché lo preservasse dalle distruzioni scatenate dalle Crociate.

A questo punto è interessante sapere quando fanno apparizione sulla scena letteraria, le storie connesse a Re Artù ed al Graal. La più famosa opera che parla del Graal risale al 1190 anno della pubblicazione del Perceval le Gallois ou le Compte du Graal ad opera di Chrétien de Troyes, ma la prima vera apparizione letteraria della storia di Re Artù è databile al 940 anno in cui furono pubblicati gli Annales Cambriae le cui storie coprono un arco di tempo di ben 533 anni a partire dal 447. Il testo che, però, dà origine alla leggenda di re Artù è la Historia Regnum Britannie opera di Geoffrey of Monmouth completato nel 1139. Possiamo, quindi, affermare con certezza che Pantaleone possedeva, anche da questo punto di vista, tutti gli elementi leggendari già ben formati che sono alla base delle leggende arturiane, ma resta da comprendere il motivo per il quale egli rappresenta il Re nel mosaico.

Re Artù nel mosaico: analisi tra storia e leggenda

Cominciamo subito dallo strano modo con cui Pantaleone scrive il nome di Artù nel mosaico e che abbiamo ricostruito nella immagine seguente:

Si nota subito il modo anomalo con cui sono state separate le lettere US e che pare vogliano indicarne un uso sia nella lettura della seconda riga che della terza. Altro elemento interessante è lo spazio che Pantaleone lascia tra la R e la U dell’ultima riga: tale spazio poteva essere utilizzato per inserire le due lettere US collocate all’esterno delle tre righe, eppure Pantaleone non ne approfitta: perché?

Sulla base di queste osservazioni, il testo segnato da Pantaleone contiene, la seguente dicitura:

REX ARTUS UR-US

che non può non suggerire la lettura:

REX ARTUS URSUS

A ben pensarci, e ragionando al contrario, se questa fosse stata la vera intenzione di Pantaleone, non poteva scegliere un modo più indicato per una rappresentazione, che pur contenendo il nome del re mantiene relativamente chiara ed accessibile anche questa seconda chiave di lettura. Artus Ursus è il nome scientifico con cui viene indicato l’Orso Marsicano, diffuso in Italia ed il Grizzly tipico delle regioni americane, ma quale senso può avere? Chi era il Re Orso, quali documenti attestano un rapporto tra questo nome e Re Artù? Cominciamo con l’evidenziare una prima chiave di lettura basata, ancora una volta, su una lingua diffusa nel territorio francese e ricollegabile al periodo Merovingio: il celtico. In questa lingua art o arth ha il significato, appunto, di Orso, ed Orso era un nome tipico assegnato ai guerrieri più valorosi. I Celti, infatti, avevano una vera e propria venerazione per questo animale dotato di impressionante potenza, ma le affinità tra i Celti e la storia di Re Artù non finiscono qui. La terra in cui sono ambientate le storie arturiane Avalon è un altro termine di origine celtica e significa Terra Sacra o Terra Santa. A questo punto è evidente che con la sua rappresentazione, Pantaleone suggerisce non solo la connessione tra Artù ed i Celti, ma anche un implicito rimando alla conquista della Terra Santa da parte delle truppe crociate, che pare essere l’unico elemento che non ha mai rappresentazione esplicita nel mosaico. Re Artù è quindi, il ponte tra il Re Orso, l’origine del nome ed il fine della sua missione: la riconquista della Terra Santa, obiettivo delle crociate.

A questo punto spostiamo l’attenzione su un’altra leggenda moderna, quella del Priorato di Sion, fantomatico ordine le cui origini sono narrate nel testo di Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln: Holy Blood, Holy Grail (Ed. Random House, 1982; tr. it. Il Santo Graal, Ed. Arnoldo Mondadori, Milano, 1982), ed in altre opere come quelle di Lionel Fanthorpe. Prima di addentrarci nelle ipotesi e nei presunti antichi documenti del priorato, inclusi in questo testo, vogliamo ricordare che sulla attendibilità del contenuto sono stati sollevati fortissimi dubbi che riguardano, non solo la falsificazione di documenti genealogici (sebbene fatta a partire da informazioni parzialmente vere) ma anche la controversa figura del personaggio chiave che si ritiene ultimo Maestro del fantomatico priorato e discendente dei Merovingi e quindi di Cristo: Plantard. Tratteremo più approfonditamente l’argomento nel successivo paragrafo dedicato alla chiesetta di Rennes-le-Château, altro recente mito di cui si è spesso abusato. Tra le notizie riportate da questa novella leggenda c’è quella della fondazione del monastero di Orval da parte di un gruppo di monaci basiliani calabri guidati da un certo Principe Orso che, partiti intorno al 1090 si spostarono, stranamente, in Francia, nelle Ardenne, lì dove probabilmente fu ucciso Dagoberto II (personaggio a noi noto per i richiami nella interpretazione musiva). La strana storia è confermata anche dallaCatholic Encyclopedia che data al 1071 la fondazione dell’abbazia da parte di un monaco Calabro e del suo abbandono nel 1110.

Resta il problema della identificazione del misterioso Principe Orso che avrebbe guidato la spedizione. Prima di tutto va verificata la plausibilità di un simile nome in Italia nel periodo in esame. Cominciamo subito, con l’osservare che nel 1058 Goffredo di Buglione ed il Duca Guglielmo di Normandia invitati da Papa Stefano IX scendono in Italia meridionale giungendo fino alla Calabria. L’occupazione Normanna poneva fine a quella Longobarda. In questo periodo inizia a diffondersi un nome sconosciuto nelle terre meridionali e di chiara origine nordica: Ursus. Ecco di seguito uno dei primi documenti che attesta la presenza di questo nome in Campania (http://www.solofrastorica.it/Normanni.htm). Il testo, datato ottobre del 1127, riporta un atto notarile effettuato di fronte al giudice Alferio in cui un tale Urso de Inga, figlio di Falco, divide i suoi possedimenti di Montoro e Sant’Agata:

Ante me Alferium iudicem de castro, quod dicitur Muntorium, Ursus, qui dicitur de Inga filius quondam Falconi, conuinctus est cum Urso filio suo, at dividendum inter se per convenientiam rebus stabilius, quas inter se habuerunt in eodem loco Muntorium et in tota pertinentiam eiusdem locis et quas habuerunt in pertinentia de vico quit de Sancte Agathe dicitur.

Al nome Ursus è legata l’origine della famosa famiglia Orsini che, cui secondo una tradizione appartenevano i papi Paolo I (787) ed Eugenio II (824) e cui di certo apparteneva Papa Celestino III (1191) figlio di Pietro Bobo. Un altro fondamentale documento è la 18ma epistola di S. Paolino vescovo di Nola databile al 398 e destinata al vescovo di Rouen in Normandia, nella quale Paolino parla di un cristiano di nome Orso confermando la presenza antichissima del nome in quella zona della Francia. Quindi Ursus è un nome che ritroviamo in Francia e che è plausibile in Italia, nell’anno in cui viene collocato l’episodio del viaggio dei monaci Basiliani; esso è legato a nobili di origine normanna e fa la sua comparsa in coincidenza con la discesa di Goffredo di Buglione in Italia. La storia narrata è quindi attendibile relativamente alla fondazione del monastero e plausibile relativamente al nome del principe che guidò la spedizione dei monaci basiliani calabri.

Non può sfuggire, inoltre, il ritorno, nella storia, dei monaci Basiliani: basiliano era lo stesso Pantaleone. Ma perché un gruppo di monaci Basiliani doveva recarsi a fondare un monastero in una terra così lontana e proprio nel territorio di Goffredo di Buglione? Il fantomatico Re Orso, potrebbe ragionevolmente essere lo stesso Goffredo di Buglione, infatti sembra logico desumere che sia stato proprio quest’ultimo, dopo la conquista dell’Italia meridionale e della Calabria, ad invitare i monaci presso i suoi possedimenti in Francia. Ciò che manca è, però, ancora una volta, il legame tra il Buglione ed il principe Orso. Stando a quanto narra il citato volume di Baigent, Leigh & Lincoln, Goffredo di Buglione era un discendente della stirpe dei Merovingi. Di seguito indichiamo l’albero genealogico della famiglia di Goffredo6:

Goffredo di Buglione (1062-1100)
Eustacchio II (1030 – 1093)
Eustacchio I (1004 – 1049)

Ugo di Plantard (____ – 1015)
Giovanni I (____ – 1020)
Ugo I (951 – 971)

Sigisbert VII (____ – Abt 980)
Bera VI “The Architect” (___ – 975)
Arnaud (____ – 952)

Guglielmo III (874 – 936)
Gugliemo II (____ – 914)
Sigisbert VI “Principe Ursus” (____ – Abt 885)

Ildedrico I (____ – 867)
Bera V (794 – 860)
Argila (775 – 836)

Bera IV (755 – 813)
Gugliemo or Guilhelm (____ – ____)
Bera III (715 – 770)

Sigisberto V (695/698 – Abt 766)
Sigisberto IV (676 – 758)
Dagoberto II (651 – 23 DEC 679)

Sigisberto III (629 – 656)
Dagobert I “the Great” (605 – 19 JAN 639)
Clotario II DI NEUSTRIA (584 – 629)

Chilprico I (523 – 584)
Clotaire I “the Old” (497 – 561)
Clovis I “the Great” (Abt 465 – 27 NOV 511/514)

Childerico I (436 – 26 NOV 481/484)
Merovee “il giovane” (Abt 415 – 457)
Clodio (380/395 – 448)

Faramondo o Faramundo (Abt 370 – 427/430)
Marcomiro (Abt 347 – 404)
Clodio (Abt 324 – 389)

Dagoberto (Abt 300 – 379)
Genebaldo (Abt 262 – 358)
Dagoberto (Abt 230 – 317)

Walter (Bef 298 – 306)
Clodio III (Bef 272 – 298)
Barthero (Bef 253 – 272)

Hilderico (Bef 212 – 253)
Sunno or Huano (Bef 186 – 213)
Faraberto (Bef 166 – 186)

Clodomiro IV (Bef 149 – 166)o
Marcomero IV (Bef 128 – 149)
Odomiro o Odomar (Bef 114 – 128)

Richemero (____ – 114)
Ratherio (____ – 0090)
Antenore IV (____ – 0069)

Clodomiro III (0003 – 0063)

Sempre stando ai documenti del fantomatico priorato, Sigisberto VI, il Principe Ursus, condusse una rivolta infruttuosa contro il re Luigi II: la storia riporta la rivolta ma non parla né di Sigisberto, né, tantomeno, ricorda l’appellativo di Principe Orso. Goffredo potrebbe, da questo punto di vista, essere a ragione ritenuto il legittimo discendente del principe Orso, sempre a patto che la genealogia sia attendibile e che il principe Orso sia davvero esistito. In questa ipotesi (quella di Plantard riportata nel testo di Lionel Fanthorpe) Sigisberto IV figlio di Dagoberto, non sarebbe deceduto nell’agguato che vide la morte del padre, ma scampato avrebbe continuato a vivere di nascosto dando origine all’albero genealogico illustrato. Una cosa è certa la leggenda che lega Mervee alla Maddalena è incompatibile con l’anno dell’arrivo ipotetico della Maddalena in Francia (35 d.c.), da cui la data di nascita ipotetica di Mervee dista ben 380 anni. Se si fosse voluto dar credito, nel I Secolo, alla leggenda, la connessione corretta doveva essere con Clodomiro III (ferma restando la cautela sulla attendibilità della genealogia). Resta il dubbio che, sulla base di questa leggenda, Pantaleone possa aver rappresentato simbolicamente l'”Albero genealogico”, al centro della sua opera.

Torniamo, però, alla raffigurazione di re Artù nel mosaico. Che senso ha la cavalcatura del caprone? Il cavalcare la capra era, nel Medioevo, un modo di dire abbastanza diffuso per indicare una persona che parla o agisce in modo sciocco, riportiamo a riguardo due emblematici esempi d’uso della locuzione7:

Mi pare che ser Bernabò, disputando con ser Ambrogio cavalcasse la capra inverso il chino (Decamerone II,10) / Gli facean cavalcare la capra delle maggiori sciocchezze del mondo (Ibidem VIII,9)

Non va trascurato nemmeno lo scettro di Re Artù che sembra, invero, essere una verga da pastore. La scena, insomma, sembra voler sottolineare o l’atteggiamento sciocco di Artù, oppure quello di coloro che credono alla sua leggenda.

Il Gatto con gli stivali, Parsifal ed Excalibur nel mosaico

Interessante è la presenza di un altro personaggio fantastico: il Gatto con gli stivali posto innanzi la capra cavalcata da Re Artù. Il Gatto, notoriamente, trasformò, con le sue furbate, il suo povero padrone, di lignaggio tutt’altro che nobile, in un principe consentendogli anche di pervenire a nozze con una nobildama, e consolidando, così, una stirpe nobile nata da un raggiro. Esistono due problemi, il primo è, evidentemente, il senso che Pantaleone vuol dare a questa storia fantastica, anche alla luce di quanto si è detto, il secondo, invece, è la constatazione che la storia, che sembrerebbe apparire per la prima volta nei racconti del poeta napoletano Gianbattista Basile intorno al 16 secolo, esisteva invece già ben 400 anni prima. A nostro avviso, anche in linea con l’interpretazione delle storie arturiane proposta da David Lodge8, il gatto con gli stivali non ha solo la funzione immediata che abbiamo dato ma anche una funzione implicitamente sessuale e suggerisce, ancora una volta, che qualunque chiave di lettura dell’opera musiva non può prescindere da questo parametro, ricordato, in forma più o meno esplicita, fin troppo spesso nel mosaico: basti ricordare la donna nuda che cavalca uno dei due lunghi rami alla base dell’albero (a destra in alto in figura).

La raffigurazione si completa con i due elefanti di sesso diverso (vedi i due cerchi che li contrassegnano) che sorreggono l’intero albero ritratti nell’atto dell’accoppiamento9, evidenziato anche dalla protuberanza che dall’animale di destra si infila sotto la coda di quello a sinistra. Per comprendere la storia di re Artù non ci si può limitare ad osservare ciò che si narra o si vede nel mosaico (Re Artù che cavalca la capra), ma bisogna spingersi oltre cercando di “ascoltare” l’opera. Non a caso, dietro Re Artù c’è la figura di Parsival nudo (con chiaro riferimento alla purezza e mancanza di preconcetto che deve precedere la interpretazione) che porta la mano alla bocca nell’atto di gridare a Re Artù qualcosa. Ma la purezza di intenzione non è sufficiente, è necessario tener conto che la regalità di Artù gli viene dalle opere del furbo gatto, che rampante gli mostra il modo per pervenire al trono pur non avendo sangue reale: la spada Excalibur.

Resta, però, da capire dov’è nascosta la spada nel mosaico: la figura successiva la mostra, credo, con fin troppa evidenza ed è lo stesso Re Artù che ci indica il posto in cui è conficcata. La spada è, quindi, lo stesso albero conficcato nell’altare. Quindi l’albero è la Croce (nell’interpretazione gnostica), la genealogia (in quella storica) e la spada (in quella leggendaria e simbolica) insieme. Il suo manico è il Graal ed il grembo che dà vita nell’incontro casto (i due elefanti come indicato nel precedente lavoro) alla nuova stirpe regale trasformando un principe che in realtà non lo era (Clodomiro III, se si vuol credere alla genealogia) in un re la cui stirpe discende direttamente da Gesù attraverso la Maddalena (la torre – Magdal compagna-Miriam dell’albero-Yoshua).

E’ ancora una volta il vescovo di Nola S. Paolino che avvalora la nostra ipotesi attraverso una delle sue più comuni metafore: la coppia Croce-Albero. Questa metafora era, per Paolino, talmente scontata che nella dodicesima lettera datata 398 non si premura nemmeno di spiegarla:

… ritrovati in conseguenza di un albero (la Croce), ritrovati per opera di una vergine …
(Epistolario Paolino, Lettera 12,4)

Un altro interessante particolare è relativo alla “roccia” in cui è infissa la spada ed al Graal. La forma che prende la mitica coppa nell’opera Parzival di Wolfram von Eschenbach del 1220, è una pietra (lapsit exillis, o lapis exillis), con il significato probabile di “pietra della morte” che è stata associata, forse non a torto, alla pietra filosofale alchemica. L’obiettivo dichiarato di Wolfram è di correggere la versione di Chrétien de Troyes che, a dire dell’autore, non contiene tutte le informazioni disponibili, ma, cosa singolare, la storia ampliata e corretta, secondo Wolfram, gli viene da un certo Kyot di Provenza (identificabile in Guiot de Provins), monaco templare. Nella storia il Graal-pietra è custodita da un gruppo di Cavalieri (Templari) che Wolfram definisce <> in un Castello (e chissà che proprio questi racconti non abbiano ispirato a Federico II il progetto di Castel del Monte). Ma quello che appare l’elemento più singolare della storia è sicuramente la figura di Cundrie il <>, che Wagner sostituì secoli dopo (1882) con Kundry, e che non esitò ad identificare con la Maddalena. Il personaggio, infatti, come la Maddalena porta un’ampolla di balsamo (che rievoca il Graal) con cui lava i piedi dell’eroe asciugandoli (proprio come la Maddalena) con i suoi lunghi capelli. Che Artù, nel mosaico, indicandoci il punto in cui è infissa Excalibur-albero voglia indicarci che il segreto del Graal va ricercato in quella roccia?

Il segreto dei Templari nel mosaico

L’ordine dei Templari fondato da Hugo de Paganis nel 1118 per difendere i pellegrini e la stessa città di Gerusalemme, ha una parte rilevante nel mosaico anche se non direttamente evidente. L’elemento simbolico che meglio rappresenta l’Ordine nell’opera è di certo la scacchiera di 8×8 = 64 quadrati bianchi e neri la cui collocazione alla base dell’albero, affiancata al medesimo cervo ferito(vedi figura in altro a destra) che appare anche nella corona e che abbiamo già analizzato nel precedente lavoro, è tutt’altro che casuale. La scacchiera è uno dei principali simboli templari.

Abbiamo supposto che il cervo nella corona del mosaico rappresenti Dagoberto II trafitto al capo da una lancia durante una battuta di caccia10. Nella corona del mosaico il Sagittario scaglia la freccia che uccide il cervo; in questo caso chi scaglia la freccia è Diana cacciatrice. Si è detto (vedi precedente articolo) che il cervo della corona rappresenta sia Dagoberto che il figlio leggendario Sigisberto IV11. Qui, invece, gli animali sono due, il primo appare ferito e morente (vedi il capo reclinato) ma il secondo appare in fuga (vedi la gamba sinistra alzata) e per di più è rappresentato come un cervo dal volto d’uomo. La stessa Diana ci riporta al culto storicamente accertato dei primi Merovingi (Merovee e Clodoveo) per la dea cacciatrice. Interessante è anche constatare che il cervo morente ha in testa, com’è normale che sia, vistose corna simbolo della sua regalità (infatti “corona” ha una etimologia ebraica derivante da KRN, Keren), mentre il cervo che sfugge a Diana, con la testa d’uomo, ha sulla testa la scacchiera simbolo Templare. Egli quindi, ed il personaggio che rappresenta, Sigisberto IV, diviene il Re o primo Gran Maestro dell’ordine Templare (che è insito nel simbolo della scacchiera). Quindi alla base della spada c’è l’episodio con il quale i mandanti dell’omicidio di Dagoberto II ritenevano di aver estinto la dinastia dei Merovingi, legittima titolare del trono di Francia, e, attraverso la leggenda della Maddalena e di Gesù, anche di quello di Israele.

In realtà, sempre volendo dar credito alla leggenda ed alle genealogie di Plantard, la discendenza dei Merovingi sopravvive con Sigisberto IV fino a Goffredo di Buglione che attraverso la conquista di Gerusalemme completa il progetto di riunificazione dei legittimi regni12.

Ma torniamo alla scacchiera. La leggenda vuole che il simbolo sia legato ai nascondiglio del mitico tesoro del Tempio di Salomone che sarebbe entrato in possesso dei Templari insieme ad altre importanti reliquie come il Graal fisico (la coppa dell’ultima cena), la croce di Gesù e la Sacra Sindone. E’ interessante notare come la scacchiera con le sue 64 celle (8×8) sia davvero simbolicamente legata al mitico Tesoro da un famosissimo documento scoperto nel 1945 a Qumran: il Rotolo di Rame. Questo rotolo contiene, in forma più o meno esplicita, 64 luoghi nei quali sarebbero stati seppelliti i tesori del Tempio, forse per sottrarli al saccheggio Romano. Milik, personaggio centrale nella storia dei ritrovamenti e delle ricerche sui papiri qumraniani13, condusse tra il 1959 ed il 1960, una serie di scavi in alcuni dei luoghi indicati nel rotolo senza alcun successo, tanto che lo stesso prof. Moraldi, massimo studioso italiano dei rotoli, insieme ad altri studiosi finì per credere che l’opera fosse solo un componimento letterario simbolico in cui il tesoro aveva un valore esclusivamente metaforico. Se i Templari fossero venuti in possesso del Rotolo, la storia delle ricerche da loro condotte in Terra Santa avrebbe un saldo fondamento. Inoltre se il, Rotolo di Rame fosse entrato in loro possesso, quale oggetto poteva essere più indicato a simboleggiare la mappa del tesoro del Tempio se non la scacchiera?

E’ anche interessante notare come Pantaleone effettui un particolare accostamento formale e cromatico tra la scacchiera bianca e nera, con la quale rappresenta la Torre a sinistra dell’Albero, e la scacchiera bianca e nera del mosaico, alla base dell’albero ed nel cavo della coppa-Graal, rappresentata metaforicamente dai due rami curvi. Se, come crediamo di aver dimostrato, Pantaleone entrò in possesso delVangelo di Filippo, opera gnostica conosciuta solo dopo i ritrovamenti del 1947 a Nag Hammadi in Egitto, è possibile che questo sia stato uno dei reperti portati alla luce dai Templari. Lo stesso simbolo della sirena presente nella corona e di cui più volte abbiamo parlato, proprio nella forma di Abraxas costituisce uno tra i vari sigilli che sono stati adoperati dall’Ordine, ne vediamo di seguito alcune immagini:

L’Abraxas, chiaramente raffigurato come un cavaliere con elmo, è presente nella raffigurazione con una emblematica scritta “Secretum Templi”14. Interessante è anche la presenza delle tre torri tipiche di alcuni dei suddetti sigilli templari talora sostituite una torre centrale e due pesci, o una torre con tre merli, raffigurazioni molto simili alla torre di Babele del mosaico di Otranto:

O ancora il simbolo del calice-nido con il pellicano che si strappa il petto per nutrire i tre piccoli insidiato da un serpente, contiene in sé le principali allegorie del mosaico:

Il mosaico di Otranto ed il mistero di Rennes-le-Château

Passiamo ad un’altra coincidenza cronologica che ci riporta che al citato libro Holy Blood, Holy Grail e che riguarda, ancora una volta, i Templari. Sappiamo che il mosaico di Otranto fu realizzato tra il 1163 ed il 1165. Tra il 1156 ed il 1169, Bertrand de Blanquefort o Blanchefort fu Gran Maestro dell’ordine Templare. Blanchefort fu fatto prigioniero nello stesso anno della sua elezione a Gran Maestro (1156) e fu liberato tre anni dopo (1159) per intercessione di Manuel Commène imperatore di Costantinopoli. Combatté con valore al fianco di Raymond Roger de Trencavel, celebre cataro, che gli fece dono di alcune terre nei dintorni di Rennes-le-Château e di Bezu à l’Ordre15. E’ proprio questo legame cronologico con il mosaico, affiancato a ciò che abbiamo già evidenziato e che ricollega il mosaico all’ordine Templare a farci fare un’ulteriore passo verso un’altra intricata e tutt’altro che limpida storia: quella della chiesetta di Rennes-le-Château proprio nel territorio che fu donato al Gran Maestro. L’argomento è stato oggetto di un numero enorme di pubblicazioni articoli e di recente ha acceso fantasie di diverso genere, tanto che è oggettivamente difficile se non impossibile capire dove è la realtà e dove, invece, comincia la fantasia. Pur rimandando alla vastissima letteratura più o meno fondata pubblicata intorno all’argomento vogliamo soffermarci sui fatti oggettivi che la storia della chiesetta contiene e che vanno doverosamente riconnessi al mosaico di Otranto nella interpretazione che abbiamo proposto nel precedente numero di Episteme. Sono, infatti, a nostro avviso diversi gli elementi oggettivi che accomunano la storia di questa oscura chiesetta a quella dei templari ed il nostro mosaico.

Cominciamo dagli elementi cronologici e geografici.

La chiesetta di Rennes nacque, probabilmente, come Cappella di famiglia nell’VIII secolo e fu consacrata nel 108916 a S. Maria Maddalena. Di certo si sa, grazie ad un registro parrocchiale datato 1694, che nella chiesa venivano inumati i discendenti della famiglia Blanchefort. La chiesetta sorge, come detto, nel territorio di Carcassone in Linguadoca. Quel territorio vide la nascita e l’ascesa della eresia catara fino al 1244 anno in cui la Linguadoca cade sotto il dominio francese segnando la fine della esperienza catara sviluppatasi in quella regione.

Prima di proseguire soffermiamoci per un istante sulla eresia catara. Il catarismo ultima derivazione del pensiero gnostico nacque, probabilmente, come sviluppo di due precedenti filoni di origine manichea e quindi post-gnostica: i Pauliciani diffusisi in Asia Minore (VIII-IX sec.) e successivamente i Bogomili della penisola balcanica (XI-XIV sec.) che, si crede grazie agli scambi culturali favoriti proprio dalle crociate, e sulla spinta delle invasioni turche, si spostarono in Linguadoca. Gli studiosi propongono quali possibile evoluzione del pensiero gnostico le seguenti tappe:

cristiani delle origini > gnostici > manichei > pauliciani > bogomili > catari occidentali17.

Nel 1167 (solo due anni dopo la realizzazione del mosaico), un concilio cataro tenutosi a Tolosa stabiliva ufficialmente una sorta di organizzazione territoriale dell’eresia, con l’istituzione di quattro diocesi nella zona di Tolosa, Albi, Carcassonne, quest’ultima città a pochi chilometri da Rennes. Esiste quindi, una compatibilità temporale e spaziale spinta che lega:

– il fiorire del pensiero gnostico in Francia attraverso il catarismo

– il culto della Maddalena centrale per lo gnosticismo e che ha interessanti echi nel catarismo (vedere capitolo successivo)

– la leggenda della Maddalena in Francia

– il trasferimento dei Bogomili dai Balcani alla Francia

– la figura di Bertrand de Blanquefort gran Maestro templare tra il 1156 ed il 1169 divenuto tenutario di possedimenti nel territorio di Rennes grazie alle donazioni del cataro Raymond Roger de Trencavel

– le crociate e l’anno di costruzione del mosaico di Otranto (1163-1165)

– la rotta privilegiata delle navi crociate tra Otranto ed i Balcani.

Ritorniamo, ora, alla piccola chiesa di Rennes. Nel 1781 il curato di Rennes-le-Château, Antoine Bigou, ricevette, in confessione ed in punto di morte, dalla marchesa d’Hautpoul, Marie de Negri D’Arlès, un segreto di famiglia, che avrebbe dovuto essere tramandato. La marchesa, stranamente, non viene inumata lì dove giacevano i resti di famiglia (nella chiesa) ma fuori da essa nei pressi del campanile. Dieci anni dopo il curato fece collocare sulla tomba della marchesa una pietra tombale proveniente da un’altra tomba che si trovava nella zona di Les Pontils ad Arques nella valle de la Sals. Che fine abbiano fatto i resti di questa misteriosa tomba profanata, non è dato sapere. Nello stesso anno, il curato depone alcuni manoscritti in un pilastro visigoto lì vicino. Poi fa posare all’incontrario, sempre vicino all’altare, a copertura di quella che poteva essere la tomba dei d’Hautpoul (il condizionale lo spiegheremo tra breve), una lastra di pietra conosciuta come la “dalle des Chevaliers”18. François Bérenger Saunière viene nominato curato di Rennes-le-Château il 1° giugno 1885. Viste le condizioni disperate della chiesetta cui era stato destinato avvia i lavori di restauro che, come vedremo, stravolgeranno la costruzione introducendo una serie incredibile di raffigurazioni e simbolismi enigmatici, ma ciò che ci interessa è il ritrovamento della lastra capovolta che copriva un locale il cui unico contenuto pervenutoci (visto che l’abate chiese agli operai di lasciarlo solo durante il sopralluogo) è un teschio forato. Soffermiamoci su questa lastra che costituisce un ulteriore elemento oggettivo.

La lastra, purtroppo fortemente deteriorata poiché lasciata dall’abate esposta alle intemperie, è costituita da due Pannelli raffiguranti due portali. Sotto il primo appare una figura a cavallo che suona un corno, sotto l’altro un cavaliere ed un fanciullo a cavallo. Quest’ultima immagine non può non richiamare il sigillo templare, anche se il secondo cavaliere è qui raffigurato come un fanciullo. Una immagine simile la troviamo nel mosaico, sempre nella parte inferiore lì dove è presente la raffigurazione dei due cervi ma in posizione diagonalmente simmetrica:

A questo punto ritorniamo al secondo ritrovamento dell’abate: i documenti. E’ proprio dai presunti documenti ritrovati che inizia la storia da noi adoperata per desumere la discendenza presunta di re Dagoberto II, che vede come protagonista il fantomatico Priorato di Sion e Plantard. Il primo dei due documenti era l’albero geneologico di Dagobert II dal 681 al 1244 e dal 1244 al 1644, redatto su pergamena e accompagnato da un secondo documento, un testamento di Francois-Pierre d’Hautpoul registrato il 23 novembre 1644 da Captier, notaio in Esperaza (Aude), entrambi recanti il sigillo della Regina Blanche de Castille. Quindi siamo di fronte al classico “cane che si morde la coda”. Non è il caso di addentrarci nella miriade di critiche mosse a Plantard cui vengono attribuite falsificazioni progressive della documentazione effettuate depositando falsi reperti, utilizzando informazioni talora vere, talora palesemente false ma, comunque e sempre, storie inventate con tanto di pezze d’appoggio destinate a dimostrare il suo lignaggio. Riteniamo, doveroso, comunque, segnalare che le obiezioni che abbiamo letto, espongono in maniera scrupolosa, i torbidi retroscena della vita di Plantard ed il suo legame con il governo collaborazionista di Vichy durante la seconda guerra mondiale, ma anche con il nazismo e con le fazioni antimassoniche ed antisioniste della destra francese, ma sono altrettanto superficiali quando devono addurre le motivazioni per le quali i documenti indicati da Plantard sono ritenuti falsi19.

Potremmo, a questo punto, entrare nella marea di simbolismi introdotti a seguito della ristrutturazione voluta dall’abate Saunière, verificando l’analogia tra il pavimento a scacchiera di 64 caselle bianche e nere e la scacchiera del mosaico, o l’ossessiva presenza della Maddalena dentro e fuori la chiesa, o la sequenza delle statue dei santi le cui iniziali descrivono la parola Graal – che ci riporta all’Artù nel mosaico – o la impressionante somiglianza tra la costruzione voluta dall’abate denominata Torre Magdala e la torre del mosaico, e infinite altre analogie, ma sposteremmo l’attenzione su opere realizzate ad oltre 700 anni di distanza, peraltro di pessimo gusto e fattura volute da un sacerdote avente controversi legami con ambienti esoterici.

Ciò che ci preme sottolineare e che, anche nella storia di Rennes, il fulcro pare essere la tomba della Maddalena e la sua venuta in Francia, e che il mistero è quindi legato, ancora una volta, a questa donna e ad antichi manoscritti o reliquie che sembrano avere un valore rilevante non solo di tipo simbolico-gnostico, ma per una qualche informazione in esse contenuta che deve rimanere segreta.

Il mosaico di Otranto e la cattedrale di Chartres

Per proseguire in questa carrellata dedicata ai documenti ed alle opere architettoniche ed artistiche che avvalorano la nostra ricostruzione del simbolismo adoperato da Pantaleone nel mosaico di Otranto non possiamo non ricordare una delle più spettacolari realizzazioni dell’arte gotica: la cattedrale di Chartres. Essa presenta, sebbene adottando forme artistiche variegate (vetrate, bassorilievi, sculture) tematiche e accostamenti che sono comuni anche al mosaico di Otranto. Interessante è, ad esempio, il bassorilievo che ritrae insieme Melchisedek, la regina di Saba e re Salomone. Melchisedek reca tra le mani una coppa e nella dicitura che campeggia sotto il bassorilievo vi è una enigmatica scritta in latino “HIC AMITITUR ARCHA CEDERIS”. In questa forma la frase è priva di significato. Una delle possibili alternative potrebbe essere “HIC AMICITUR ARCHA FOEDERIS”, in pratica “Qui è nascosta l’arca dell’alleanza”, ma indipendentemente dal significato, l’accostamento tra Re Salomone e Melchisedek, la regina di Saba e il Graal è interamente presente nel mosaico con un simbolismo più criptico ma simile. Nel mosaico, infatti, ritorna la doppia funzione della immagine di Salomone che è allo stesso tempo Re di Salem (Jerusalem o “città della Pace” con etimologia ebraica) ma anche Re di Giustizia (essendo egli stesso il simbolo massimo della giustizia e della saggezza) così come l’enigmatico Re di Salem (Gerusalemme nel papiro qumraniano 11Qmelch) Melchisedek è, nella etimologia ebraica il re (melek in lingua ebraica) di giustizia (sedek in lingua ebraica). I due personaggi rappresentano il doppio messianesimo tipico dell’essenismo (il messia di Aronne ed il Messia di Davide) che, se vogliamo, ci riporta alla doppia funzione del Messia: sacerdotale e politica che si unisce nel Cristo, in particolare in quello giudaico-cristiano prima, e gnostico dopo. La centralità di Melchisedek è un elemento fortemente caratterizzante delle scritture qumraniane (papiro 11Qmelch, Libri di Enoch), di quelle gnostiche (scritti di Nag Hammadi) e di quelle di matrice giudaico-cristiana (la Lettera agli Ebrei, chiaramente rivolta ai giudeo-cristiani come invito alla unificazione con la corrente paolina del cristianesimo, è l’unico tra gli scritti neotestamentari che fa un chiaro riferimento a questa figura). Quindi Melchisedek è, di per sé, un primo forte indizio che colloca gli autori della cattedrale di Chartes e del mosaico di Otranto nell’ambito della teologia gnostica o al più giudaico-cristiana. La figura della regina di Saba, invece, è un elemento simbolico che caratterizza le opere chiaramente ed univocamente come gnostiche. La regina di Saba è il simbolo della saggezza (caratteristica questa della Maddalena), ma è anche la regina nera che richiama alla mente il culto di Iside, e il culto della Madonna nera, introdotto, proprio da Re Dagoberto. Ed è proprio l’ambiguità del nome Maria che consente agli eretici gnostici di nascondere il culto della Maddalena dietro quello della Vergine, e forse il culto del figlio avuto da Gesù dietro Gesù stesso. Questa ambiguità è presente, come indicato, nel mosaico attraverso la pantera (chiaro richiamo alla tesi del polemista Celso ed alle scritture Toledot ebraiche che volevano Gesù figlio di un soldato romano di nome Pandera) che regge l’ariete e che segnala il passaggio da un era, quella dell’Ariete, ad un’altra, quella dei Pesci, (rappresentati dalla sua compagna la sirena a due code) attraverso Gesù. La pantera ha una compagna, la Sirena Melusine, che è nel contempo la Madre dell’Ariete (Gesù) e compagna (Miriam in ebraico) dello stesso Gesù e quindi progenitrice della stirpe Merovingia (per il dettaglio di questa tesi rimandiamo ai precedenti due articoli pubblicati su Episteme n. 5). Nella raffigurazione di Chartres, Melchisedek regge una coppa chiaramente indicante il sangue e la coppa dell’ultima cena. Il fatto che sia lui a tenere in mano la coppa lo ricollega al sacerdozio eterno cui è destinato, e che ha in Gesù il legittimo successore.

Per finire non possiamo non soffermarci su quella che è una ulteriore evidente prova a sostegno della diffusione della leggenda della Maddalena in Francia in epoca medioevale: la raffigurazione del viaggio della Maddalena in Francia in una delle vetrate della cattedrale di Chartres.

Soffermiamoci sulla parte centrale della vetrata (abbiamo isolato unicamente questa in figura) che, come il mosaico, va letta dal basso verso l’alto. Al centro, in basso a sinistra La Maddalena vestita con un mantello azzurro da cui fuoriesce una tunica rossa, sale su una nave. Giunge in Francia con la sorella Marta ed il fratello Lazzaro ove S. Massimino vescovo li accoglie(al centro in basso). Nella scena in basso a destra è raffigurata una sorta di castello che pare richiamare l’accoglienza che il principe francese dette alla Maddalena. Nel semicerchio superiore la morte della Maddalena e la sua deposizione in un sepolcro (che a questo punto si trova, chiaramente, in Francia). L’anomala scena appare ripetuta e nella seconda il cadavere è bendato. Questo, può, a nostro avviso, avere un sol senso: la prima è la raffigurazione della morte della Maddalena, mentre la seconda raffigura il ritrovamento del corpo o, meglio, una deposizione in un diverso sito, visto che il sarcofago appare chiaramente diverso nelle due raffigurazioni.

La Maddalena nelle basiliche di Cimitile

La più incredibile e significativa raffigurazione della Maddalena è ancora oggi visibile nel complesso delle basiliche paleocristiane di Cimitile in provincia di Napoli. Il complesso rappresenta la più antica testimonianza del Cristianesimo in Italia ma è anche uno dei più sensazionali e prestigiosi documenti del Cristianesimo mondiale. La sua importanza risiede, non solo nella vetustà delle opere ma soprattutto, paradossalmente, nella incuria in cui è stato relegato e che ha consentito, anche se in pessimo stato di conservazione, la sopravvivenza del prezioso patrimonio monumentale e pittorico. Il restauro iniziato nel lontano1988 e culminato con gli interventi per il giubileo, ha restituito al patrimonio artistico mondiale questo prezioso gioiello, eppure, paradossalmente, oggi che queste opere sembrano essere state salvate dall’abbandono, finiscono per essere seriamente minacciate da interventi inutili, eseguiti con incredibile imperizia e superficialità sui quali torneremo doverosamente alla fine di questo capitolo. La principale opera pittorica, sulla quale vogliamo attirare l’attenzione non solo del lettore, ma anche dei critici e degli storici, è allocata nella basilica detta dei Martiri. La basilica costituisce la più antica del complesso e, quindi, si colloca tra le più antiche basiliche paleocristiane mondiali. È un locale di dimensioni ridottissime composto da tre vani risalenti al II-III secolo. Il vano centrale, a cupola, rappresenta il vero gioiello pittorico del complesso, sebbene i dipinti siano in condizioni che si possono eufemisticamente definire disperate. Questo locale contiene sulla parete ovest una rappresentazione della passione di Gesù relativamente convenzionale se non per la collocazione del Cristo in croce che appare dipinto, in parte, su un contrafforte che sorregge la volta. La parete nord ospita vari dipinti che raffigurano episodi evangelici. In questa parete fu ricavato dal vescovo Leone III nel IX secolo il nuovo ingresso all’edificio sostitutivo di quello preesistente orientato a sud. Il primo dipinto della parete nord, situato subito sopra l’ingresso, ritrae la Maddalena e la Vergine inginocchiate ai due lati del Cristo risorto. La scena è quella che tradizionalmente viene identificata con le parole “Noli me tangere” rivolte dal Cristo risorto alla Maddalena. (“Non mi toccare poiché non sono ancora salito al Padre”, Lc 20,17).

Altro dipinto di questa parete è la incredulità di Tommaso che immerge la mano nel costato di Gesù. Un terzo affresco rappresenta la chiamata di Pietro e Andrea raffigurati sulla loro barca durante la pesca. Interessante è uno dei tre ambienti dedicati all’apostolo Giacomo con un apposito altare e con la volta affrescata di cui rimane ben poco. La parete est presenta due altarini ai lati di un arco che funge da ingresso alla cappella di S. Giacomo. I due altarini sono costituiti da due strutture che fuoriescono dal muro e che ospitavano due acquasantiere o un piano destinato, probabilmente, ad oggetti votivi (lo stato di conservazione dei piani orizzontali non consente un migliore dettaglio). I due altarini sono sovrastati da due dipinti ricavati nelle due lunette nel muro incavato di dimensioni identiche di circa 60 cm di altezza. Quello straordinario, a nostro avviso, è il dipinto presente nell’altare a destra della volta.

Esso raffigura la Maddalena, il cui nome è chiaramente visibile a destra della testa, in abito regale che reca sulla testa una vistosissima corona. Singolare è il modo in cui l’artista ha scritto il nome adoperando per la M una sorta di omega capovolta e per la D di Magdal un cerchio. L’autore del dipinto ha posto sulla Maddalena un velo bianco (nimbo) che dista dalla testa alcuni centimetri: l’effetto complessivo è un’amplificazione delle dimensioni della corona che risalta in maniera del tutto inconsueta. Nel ritratto la Maddalena regge tra le mani un vaso chiuso associabile a quello che ospitava l’olio profumato della unzione che precedette l’ultima cena. Interessante è notare che il complesso basilicale contiene svariate raffigurazioni della Madonna, ma nelle più antiche essa appare priva di corona. Il primo dipinto che ritrae la Vergine in veste regale è sito nella basilica di S. Maria degli Angeli ed è stato realizzato nel 1344, come segnala la iscrizione in basso allo stesso dipinto. Esso, quindi, si colloca successivamente alle possibili date proposte per il dipinto della Maddalena. Questa constatazione rende ancor più incredibile la raffigurazione in veste regale della Santa che, quindi, risultava, almeno fino al XIV secolo, l’unico personaggio femminile incoronato presso il vasto complesso basilicale.

Il Reau20 – irrinunciabile riferimento per l’iconografia cristiana – riporta in analitica carrellata, tutte le possibili raffigurazioni della Santa nei vari secoli e culture, identificando nel vaso il principale tratto iconografico ed aggiunge:

Il vestito muta a seconda che sia rappresentato prima o dopo il suo pentimento. Nel periodo della vita mondana è rappresentato in vesti da cortigiana … una acconciatura civettuola, orecchini pendenti, maniche con spacchi, guanti che il maestro della tavola di Sainte-Barthelemy le fa portare anche ai piedi della croce. Ritiratasi a Saint Baume, la si vede stesa seminuda o vestita solo del manto d’oro dei suoi capelli biondi, di modo che malgrado il teschio davanti cui ella medita, è generalmente meno casta quando è rappresentata nel suo pentimento che durante il suo smarrimento. A partire dal Rinascimento, la maggior parte dei pittori hanno visto in questo motivo privo di ogni carattere religioso, nient’altro che un tentativo per eccitare la sensualità degli osservatori …

Nel sottolineare la singolarità iconografica nulla ci viene, però, detto, pur nella vasta analisi, di possibili raffigurazioni della Maddalena con corona e, nonostante i nostri sforzi, non siamo stati in grado di trovare altri dipinti simili a quello cimitilese21. All’infuori della Vergine, esistono rarissime tradizioni di Sante incoronate, legate o alla effettiva regalità (es.: Sant’Elena imperatrice), o alla regalità acquisita attraverso la verginità consacrata in matrimonio mistico a Cristo (es.: S. Agata). E’ evidente che la verginità e la regalità sono attributi non applicabili alla Maddalena. Infatti, la Maddalena era una prostituta e, sebbene proveniente da famiglia di sangue regale, come ricorda la Legenda Aurea, non ci viene presentata come una regina22. Il motivo della sua regalità va, quindi, cercato altrove.

Proviamo, quindi, ad analizzare il simbolismo attraverso le parole di S. Paolino vescovo di Nola, artefice primo del complesso basilicale, che alla santa dedica una notevole parte della sua 23ma lettera. Ne stralciamo una sintesi.

Con chiome siffatte anche la famosa donna del Vangelo, simbolo della Chiesa, asciugò i piedi di Cristo, irrigandoli di lacrime e di olio profumato … In lei il signore non amò l’unguento profumato, ma la carità per cui, modesta nell’impudenza ed audace nel suo amore, senza temere l’oltraggio e la ripulsa, penetrò nella casa a sé estranea del fariseo, vi entrò senza essere invitata, petulante ed usando quella violenza con la quale si rapisce il regno dei cieli … non corse alla tavola riccamente imbandita di quel fariseo, ma ai piedi del Cristo e si lavò e si nutrì in essi … compì la sua libagione col pianto, fece l’offerta con l’unguento, sacrificò con l’amore … meritò non solo la remissione dei peccati ma anche la gloria che il suo nome fosse proclamato insieme col Vangelo … Beata lei che gustò Cristo nella carne e ricevette il corpo di Cristo nella realtà fisicaBeata lei che meritò di essere presentata con questa immagine come simbolo della Chiesa… Vale molto di più l’inopportunità di questa donna. Infatti l’ordine del ministero preparato fin dall’eternità … richiedeva che nelle tende di Sem passasse l’abitazione di Jafeth, cioè che nella casa della Legge e dei Profeti fosse giustificata piuttosto la Chiesa … .23

L’ambiguità di alcune frasi, in Paolino, è solo apparente. L’ortodossia e l’immediatezza dei suoi scritti impedisce di trarre indicazioni nascoste relative ad un rapporto privilegiato della Maddalena con Gesù, ma è del tutto inconsueto il paragone che Paolino propone, e che fa della peccatrice il simbolo stesso della Chiesa conferendole una implicita regalità: la regalità della Chiesa, sposa di Cristo. Esperti del calibro della professoressa Castelfranchi di Lecce, profonda conoscitrice dell’arte bizantina in Italia meridionale, che abbiamo contattato per un parere sulla possibile datazione del dipinto, ritengono, a partire dalla foggia della corona, che il dipinto sia collocabile con certezza nel periodo Svevo-Angioino; eppure vari sono gli elementi che, a nostro avviso, possono consentirci di anticiparne notevolmente l’epoca di composizione. La raffigurazione potrebbe essere stata ispirata direttamente dagli scritti di Paolino e, potrebbe essere stata realizzata, non molto dopo la composizione dell’epistolario (V sec.). Ritorneremo tra breve su questa ipotesi.

Paolino parla raramente di sante nel suo epistolario e ancor più raramente eleva queste a simbolo della Chiesa; la cosa che, però, meraviglia di più è la equivalenza tra questa raffigurazione della Maddalena neotestamentaria e quella che Paolino dedica alla Regina di Saba veterotestamentaria che egli chiama Regina del Sud nella quinta epistola:

Ella (la Regina del Sud) non possedeva la legge della Scrittura, ma aveva la fede della legge, incisa nello spirito della sapienza e della pietà delle tavole del suo cuore. Venuta dagli estremi confini del mondo sospinta dal suo interesse e dal grande desiderio di conseguire la salvezza, bramò ascoltare la sapienza di Dio per ricevere ciò che non possedeva ed attingere la luce della conoscenza di cui era priva. Vuol dire che fin d’allora quella regina destinata a venire dalle genti, desiderava il suo sposo: circondata di varietà del suo vestito intessuto d’oro dimentica del suo popolo e della casa paterna, correva verso l’odore di Cristo che abbondantemente spirava dal suo Profeta (Salomone) … Perciò ella è ritenuta degna non solo del premio celeste della beata resurrezione, ma anche della potestà degli Apostoli di giudicare i Giudei infedeli per bocca del Giudice in persona, in quanto, avendo ammirato Cristo nella persona di Salomone, aveva compiuto l’amore vero di regina celeste nella mistica immagine della provvida Chiesa.24

La esegesi in apparenza ardita di Paolino, che lo porta a riconoscere in Salomone il precursore di Cristo e di conseguenza nella Regina di Saba l’immagine della Chiesa, è estremamente indicativa del clima culturale del primo Medioevo e ci riporta (anche se a distanza di 700 anni) alle raffigurazioni della regina di Saba e di Re Salomone nel mosaico di Otranto. Relativamente al mosaico, si rafforza la nostra convinzione che la prima riga della corona musiva rappresenti da un lato la Regina di Saba ed il Re Salomone come simbolo della coppia veterotestamentaria Gesù-Maddalena, dall’altro la coppia Sirena-Pantera come equivalente della medesima coppia neotestamentaria. Paolino, del resto, non fa altro che commentare e desumere da Matteo il suo paragone:

La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c’è più di Salomone! (Mt 12,42)

E’ proprio il “ritorno” della Regina del Sud che ci riporta alla Maddalena ed al dipinto che sembra voler suggerire questa interpretazione. Il viso che l’autore del dipinto ha marcatamente brunito, pare voler confermare la associazione tra la scura Regina di Saba e la Maddalena. Paolino era originario della Aquitania e quindi era nato e vissuto in una regione che vide un florido sviluppo del culto della Maddalena: non ci meraviglia, quindi, che alla Maddalena ed alla sua immagine equivalente veterotestamentaria, la Regina di Saba, Paolino dedichi non solo uno spazio inusuale nella sue lettere ma addirittura il titolo di “immagine dalla Chiesa”; ciò che desta meraviglia, è che il culto, se così fosse, era già presente nella Provenza del V secolo. E’, altresì, indicativo constatare che le due lettere furono scritte nei primi 5 anni di permanenza a Nola e quindi non risentono ancora della cultura italica e della evoluzione teologica subita dal pensiero e dalla lingua di Paolino nelle epistole successive. La triade sposa-regina-peccatrice che emerge dagli scritti di Paolino ci sembra, se non la ispirazione diretta del quadro, sicuramente una spiegazione convincente delle motivazioni teologiche alla base di questa raffigurazione, facendo emergere, anche se Paolino mai l’avrebbe sottoscritta, l’esistenza di una tradizione di origine francese, che vedeva nella Maddalena ben più di una sposa mistica di Gesù.

Ma le sorprese della cappella dei Martiri non finiscono qui. A destra della raffigurazione della Maddalena campeggia una figura intera, riccamente vestita priva, purtroppo, del volto, che, cosa estremamente strana, non è stata mai identificata. E’ sufficiente uno sguardo per rendersi conto che la figura in questione è ancora la stessa Maddalena25. La testa della figura reca il medesimo velo della Maddalena e, sebbene il volto sia andato perduto, si nota la medesima distanza del velo dalla testa, tanto che, per le identiche dimensioni, il volto della Maddalena nell’altare potrebbe essere perfettamente sovrapposto a quello della figura intera. La figura reca il medesimo mantello e la veste scura della Maddalena nell’altare, ma, i particolari che la identificano, a nostro avviso, definitivamente come la Maddalena, sono il disegno della cintura, il ricamo nelle maniche della veste e i bracciali identici nelle due figure.

Altro particolare che accomuna il metodo realizzativo delle due figure è nella cucitura dorata dei quadroni in cui sono intarsiate le stesse pietruzze che ritroviamo incastonate nella corona. Perché mai allora, l’artista ha voluto raffigurare la Santa sia a mezzo busto che a busto intero?

Il dipinto a figura intera collocato a destra della Maddalena.

Dettaglio: si notano il velo sulla testa, le maniche e la cintura decorata, ed il rotolo ed i bracciali.

Rappresentazioni replicate della medesima figura a mezzo busto e a busto intero, oltre che essere difficilmente spiegabili sono anche alquanto inconsuete. Indubbiamente la figura a busto intero appare ancor più maestosa e regale della immagine a mezzo busto nell’altare. Interessanti sono i particolari della stupenda veste a quadroni.

Comparazione delle decorazioni della cintura della Maddalena a mezzo busto (in alto), e del ricamo della veste della figura a busto intero(in basso). Entrambe presentano una corona circolare contenente una margherita.
Comparazione del velo (nimbo) nella figura a busto intero (a sinistra) ed in quella a mezzo busto (a destra).

Comparazione delle maniche delle due vesti. Figura intera a sinistra e Maddalena a destra.


Decorazioni tipiche di una dalmatica bizantina
del V-VI sec.
Si noti la similitudine con le spirali sulla cintura e sulla veste o con la decorazione della manica della tunica nella Maddalena.

Come abbiamo precedentemente indicato, sia la corona nimbata che la veste sono state classificate come Svevo/Angioine, ma può essere davvero esclusa l’ipotesi della contemporaneità al periodo paolino26? Del resto alcune preziose corone come quella dello stesso Federico II e della moglie Costanza di Aragona, ma anche quelle raffigurate in alcune miniature del periodo, sembrano particolarmente distanti dalla foggia della corona della Maddalena.

La corona imperiale di Ottone il Grande

ereditata da
Federico II.

Il cumuleuco di Costanza d’Aragona moglie di Federico II, Palermo, tesoro della cattedrale.

Il matrimonio tra la giovane Jolanda di Brienne e Federico II, dalla Cronica del Villani.

In particolare abbiamo notato che il tipo di tunica della figura intera e della Maddalena sembra essere una tipica dalmatica imperiale bizantina che era dotata di lunghe e larghe maniche come quelle nel dipinto. Abbiamo ritrovato foto di decorazioni adoperate per le maniche ed i bordi di questo tipo di abbigliamento databili al IV-V sec. comparabili alla dalmatica della Maddalena. Va sicuramente detto, che le dalmatiche, solitamente, avevano colorazione chiara e non possedevano decorazioni così diffuse (quadroni scuri nel dipinto a figura intera) ma quasi sempre concentrate (maniche, bordi). Esistono, comunque, raffigurazioni che, ritraggono simili variazioni. In un mosaico del IV secolo che si può ammirare nella chiesa di S. Vitale a Ravenna (525-548), raffigurante la imperatrice Teodora ed il suo corteo di cortigiane, ritroviamo non solo la corona nimbata (sebbene diversa da quella del dipinto come diverso è il tipo di corona), ma anche una decorazione a rombi (bordo inferiore di una delle figure a destra del dipinto) estremamente simile a quella a quadri con bordo decorato che adorna la dalmatica nella figura a busto intero cimitilese.

Corteo della imperatrice Teodora (chiesa di S. Vitale a Ravenna 525 -548)

Notare la decorazione a rombi della ultima cortigiana a destra.

Le figure con bordi marcati del mosaico, l’assenza di chiaroscuri, lo sviluppo totalmente bidimensionale ed in particolare la fattura dei volti con contorni marcati ed allungati accomunano, a nostro avviso, i due affreschi cimitilesi e le figure musive del ravennate. Altro elemento che non andrebbe trascurato, è il fatto che il dipinto verticale cimitilese, pur trovandosi sulla parete in cui era presente il precedente ingresso chiuso da Leone III, campeggia in una zona esterna a quella in cui era situata l’apertura. Quella zona muraria è, quindi, potenzialmente rimasta inalterata. Parimenti, va osservato che, salvo ritenere successivo il muro di separazione con le due lunette e gli altarini che contengono Eusebio (di cui parleremo tra breve) e la Maddalena, il muro stesso potrebbe risalire al III-IV secolo e quindi sarebbe anomalo che, pur essendo state ricavate due aree incavate destinate chiaramente a contenere figure o statue votive, queste non siano state affrescate per oltre 600 anni.

Ma andiamo ad analizzare altre singolari similitudini con alcune opere del patrimonio pittorico e musivo italiano. Una particolare affinità la ritroviamo comparando la Maddalena ad un altro mosaico altrettanto anomalo: quello che ritroviamo nella basilica di S. Prassede a Roma.

Soffermiamo l’attenzione sui primi due personaggi dei 4 che compongono il mosaico databile al IX sec.. Interessante è il primo dei due denominato “Episcopa Theodora”. Probabilmente si trattava di una persona in vita quando è stato eseguito il mosaico e, pur ritenendo il personaggio in aura di santità, lo si è rappresentato con una corona quadrata per distinguerlo dagli altri quattro (Santa Prassede, la Madonna e Santa Prudenziana). Non ci soffermeremo sull’altro interessantissimo particolare riguardante il fatto che il personaggio rappresenta chiaramente un vescovo di sesso femminile e che, quindi, costituisce una prova della apertura, nella chiesa delle origini, al sacerdozio alle donne27. Va notato che la Theodora del dipinto non è mai divenuta santa, suggerendoci la flessibilità che il concetto di santità aveva nel primo Medioevo e sul quale torneremo in relazione al dipinto che a Cimitile raffigura S. Eusebio. Molto interessante, ai nostri fini è il personaggio di S. Prudenziana rappresentato con una corona a tre punte simile alle tre punte che ritroviamo nella corona della Maddalena. Ciò aggiunge un tassello alla nostra ipotesi di predatazione, portandoci a soli 400 anni dalla data che presumiamo sia quella di composizione del nostro dipinto.

Altro sito fondamentale per la nostra elaborazione è la antichissima basilica di S. Maria Maggiore a Roma ed anche in questo caso le opere che ci interessano sono due stupendi mosaici il primo dei quali orna la facciata. La basilica del IV secolo fu ristrutturata da Papa Innocenzo II nel XII secolo dandogli l’attuale aspetto. Il mosaico in facciata mostra una stupenda Vergine in trono priva di corona, circondata dalle vergini savie e da quelle stolte della famosa parabola evangelica. Giungiamo, così, alla prima stranezza. Le vergini savie posseggono sia aureola che corona. Per essere più precisi, le vergini stolte posseggono solo l’aureola e portano una lampada ad olio spenta, mentre quelle savie posseggono aureola e corona con lampada ad olio accesa.


Difficile è dire quale sia il motivo che ha spinto l’autore del mosaico a raffigurare anche le vergini stolte con l’aureola. Se questa era strana per quelle savie, visto che si tratta di personaggi di fantasia, ci pare assurda per quelle stolte che non sono in alcun modo collegabili al concetto di santità. Raffrontando le raffigurazioni delle Vergini con quella della Maddalena nelle basiliche di Cimitile emergono svariate similitudini che non possono essere solo frutto del caso. Prima di tutto, osservando le vergini savie, si nota il ripetersi costante della presenza di una corona a tre punte simile a quella della Maddalena, ma è evidente che questo è solo uno degli aspetti e forse il meno interessante. La veste di tutte le vergini ha una fattura pressoché analoga a quella della Maddalena a figura intera cimitilese. Si ripetono i quadroni anche se in questo caso sono disposti romboidalmente. Ritornano il bordo e le maniche ricamate, la cintura decorata e, cosa che risalta in maniera emblematica, la evidente presenza di un nimbo sotto la corona delle vergini savie. Il contrasto tra la Madonna priva di corona e le vergini savie rende ancor più singolare la raffigurazione, specie se si entra all’interno della basilica e si comparano la vergine sulla facciata – priva di corona, ma assisa in trono con il bambino – e quella in trono incoronata che si trova all’interno.

Qui la “Madonna” appare abbracciata al Cristo, e sormontata, da una corona che, ancora una volta, si presenta con tre punte ed ha foggia identica a quella delle vergini sulla facciata. Colpisce l’aspetto giovanile della figura femminile, di fronte alla quale il Gesù barbuto, che poggia una mano sulla spalla della donna (altro atteggiamento singolare), appare visibilmente, più anziano. Comparando le vesti della Madonna in facciata con quella raffigurata sotto l’abside appare stridente la differenza. La veste della Madonna in facciata, sebbene elaborata, non sembra una veste nobiliare. Il drappeggio vistoso e le decorazioni geometriche grossolane sembrano fatte per esaltare la differenza tra la nobiltà delle vesti delle vergini savie rispetto a quella della Madonna. La veste della Madonna sembra molto più vicina a quella priva di decorazioni delle vergini stolte che non a quella riccamente decorata di quelle savie. La Madonna, invece, sotto l’abside è vestita con una sfarzosa veste riccamente decorata ed indossa scarpe, anch’esse decorate che risaltano di fronte ai piedi nudi di Gesù che indossa un semplice paio di sandali.

Crediamo che la sequenza delle 4 immagini, le prime due della Maddalena nelle basiliche di Cimitile, la seconda di una delle vergini della basilica di S. Maria in Trastevere e l’ultima della Madonna in trono sempre nella medesima basilica rendano meglio di ogni altra descrizione le deduzioni comparative che intendiamo proporre. Ad aumentare le nostre perplessità di fronte all’ambigua raffigurazione absidale della chiesa trasteverina intervengono le due iscrizioni: “leva eius sub capite meo et dextera illius amplexabitur me” (la sua sinistra è sotto il mio capo e la destra mi abbraccerà) incise nel rotolo che tiene in mano la Madonna e “veni electa mea et ponam te in thronum meum” (vieni mia eletta e ti porrò sul mio trono).

La scritta riportata nel libro tra le mani del Cristo la ritroviamo anche in un dipinto sostanzialmente identico, successivo a quello in analisi presente presso la cappella paolina ultimata nel 1611.

Qui, però, sparisce l’ambiguo braccio che circonda la spalla della Vergine. Il senso profondo di questa ambiguità si comprende solo risalendo alla fonte che ha ispirato le due scritte che è il Cantico dei Cantici, stupendo poema biblico dedicato al dialogo passionale che intercorre tra due sposi. La radice ambigua di questa ispirazione viene del tutto esplicata nel Pontificale Romanum – Jussu editum a Benedicto XIV et Leone XIII recognitum et castigatum ove essa diviene:

Veni, electa mea, et ponam in te thronum meum. Quia concupivit rex speciem tuam.”

E’, quindi, evidente che colei che è rappresentata è la Sposa mistica di Cristo: la Chiesa, ma nel contempo è anche la compagna di Cristo che non può essere la Vergine sebbene la teologia cattolica voglia caricare la Madonna anche di questo appellativo. La donna nel dipinto riprende il concetto espresso nell’epistolario paolino, in tal senso essa è, a nostro avviso, ispirata da una iconografia ancora in fase di transizione al momento della composizione del mosaico che aveva sovrapposto l’immagine della Madonna (in vesti umili) a quella della Maddalena (in veste e con corona regale) con l’intenzione di soppiantare quest’ultima. In questa nuova e più tranquilla collocazione teologica, gli artisti possono elaborare il concetto spingendosi fino a porre la “nuova” Maddalena sul posto che le competeva secondo la gnosi e quindi sul trono di Cristo, riprendendo l’inconscia mediazione proposta da S. Paolino: la Maddalena quale simbolo della Chiesa e Sposa mistica di Cristo. Il dipinto cimitilese è, quindi, una preziosa prova di questa transizione dal culto della Maddalena incoronata a quello delle varie Madonne incoronate che popolano le chiese, in particolare, quelle del Sud Italia. Questa prova, già di per se validissima, acquista ancor più forza nella ipotesi da noi proposta, che suggerisce una data anteriore a tutte le opere che abbiamo esaminato, e che esamineremo ancora nel seguito di questa trattazione. E’ la stessa esistenza della Maddalena intatta nelle basiliche che testimonia la sua antichità, riportandoci ad una fase storica, come quella che vide la stesura dell’epistolario paolino, ove tale ambiguità non era ancora colta in tutto il suo potenziale teologico devastante.

Ma torniamo al mosaico romano. La similitudine tra le figure delle vergini nel corteo musivo della facciata di S. Maria in Trastevere ed il corteo della Imperatrice Teodora nella chiesa di S. Vitale sembra tutt’altro che casuale anche se si pensa che nella stessa chiesa viene conservato una delle più antiche raffigurazioni della Madonna databile al VI-VII sec. che mostra evidenti analogie con l’immagine della Imperatrice nella chiesa di S. Vittore.

L’abito presenta la medesima decorazione dell’ampio collare della dalmatica di Teodora, identico è, poi, il copricapo nimbato nelle due figure. Siamo a poco più di 100 anni dalla realizzazione delle basiliche cimitilesi e, sebbene, come si sa, nessuna delle madonne precedenti a quella del 1344 nella basilica di S. Maria degli Angeli porti la corona, a Roma parecchi secoli prima si rappresenta una Madonna con copricapo bizantino ed in veste regale, a testimonianza dell’inizio della fase di transizione iconografica di cui si parlava.

A questo punto, ciò che manca alla nostra ricostruzione è un dipinto che rappresenti il momento di transizione in cui il copricapo bizantino imperiale alla Teodora sulla testa della Vergine sia appaiato alla corona a tre punte sulla testa della Maddalena. Questo dipinto esiste ed è stato di recente scoperto nella chiesa di Santa Susanna28 in Roma.

Il dipinto rappresenta le tre Marie evangeliche. La Maddalena è all’estrema destra, riconoscibile dal vaso che sorregge con gesto identico a quello della Maddalena nelle basiliche cimitilesi, è sormontata da una corona a tre punte che la differenzia dal personaggio di sinistra che ne è privo. La Vergine, invece, si presenta con il bambino e con il copricapo imperiale bizantino della principessa Teodora nella basilica di S. Vitale a Ravenna. Singolare ci appare anche la similitudine formale tra questo dipinto e quello cimitilese, specie in relazione al modo in cui sono stati delineati i contorni del volto e degli occhi. Si paragonino, infatti, le palpebre della Madonna di questo dipinto con quelle della Maddalena cimitilese.

A questo punto possiamo ricapitolare i passi della transizione di culto ed iconografica. S. Paolino prepara la strada al cambio con la sua ardita teologia che paragona la Maddalena alla Chiesa ed alla Sposa mistica di Cristo, riadattando un culto di origine provenzale, che aveva incamerato nella sua terra e che era di chiara, anche se non dichiarata, sub-origine gnostica. Il dipinto cimitilese della Maddalena incoronata, crediamo, si basi proprio su questa teologia.

Le basiliche di Cimitile e lo stesso Paolino, come testimonia il suo vasto epistolario ed in particolar modo l’epistola 32, divengono promotori di un vasto movimento di uomini ed idee che sfocia nella realizzazione di varie chiese tra la Provenza e l’Italia centrale e settentrionale, che, in qualche modo, vedono una influenza diretta o indiretta del vasto complesso basilicale cimitilese. Il costume di Paolino che commenta le immagini dipinte con un carme esplicativo, diviene la prassi, come dimostra, appunto, la lettera 32. Le immagini non sono importanti in quanto singole, ma in quanto combinate con il complesso delle rappresentazioni di una basilica: questa è l’idea centrale in Paolino che esprime, chiaramente, un costume in uso al tempo. Paolino, spesso consultato dai suoi amici, probabilmente diviene un riferimento non solo per la già vasta e nutrita cerchia di autorevoli personaggi che stimano profondamente il monaco nolano. In questo ambito il pensiero di Paolino sulla Maddalena dovette divenire uno dei momenti iconografici tipici anche se, ben presto, la contraddizione stridente evidente nelle basiliche cimitilesi, tra la Vergine in vesti umili e non regali e la Maddalena in vesti regali, insieme alle idee eretiche della gnosi e del ruolo della Maddalena in quella eresia, dovettero spingere ai primi tentativi di rappresentazione diversa della Madonna di cui il dipinto di S. Maria Maggiore è una delle prime testimonianze. Quel dipinto, come anche quello cimitilese, traggono ispirazione dai mosaici del ravennate ed in particolare dal riferimento primo della regalità al femminile: il corteo nuziale della imperatrice Teodora. Ma Paolino – ritenendo plausibile la datazione da noi proposta per la Maddalena cimitilese – sceglie un modello raffigurativo più libero e che, come mostreremo tra breve, sembra ispirato alla sua origine Provenzale o è, comunque, di origine Francese. Quella raffigurazione della Maddalena e la teologia che Paolino esprime, è ancora presente nel dipinto della basilica di S. Susanna. Qui, però, la Maddalena incoronata è affiancata alla Vergine imperatrice. La Vergine indossa il copricapo bizantino della imperatrice Teodora che pone il suo simbolo regale al di sopra di quello della Maddalena rappresentata con la corona a tre punte. Questo è l’apice del periodo di transizione prima della scomparsa definitiva della Maddalena incoronata. Sarebbe interessante sapere se lo stato di degrado del dipinto è dovuto ad una deliberata distruzione, ma ciò ci porterebbe fuori tema.

Altro interessante dettaglio, tutt’altro che trascurabile, è costituito dal volto volontariamente e fortemente brunito, della Maddalena nel dipinto cimitilese. E legittimo pensare che, se il culto della Vergine Incoronata costituisce una sovrapposizione sostitutiva di quello della Maddalena, il culto delle Madonne Nere, anch’esse sempre incoronate, è il più chiaro e diretto richiamo alla iconografia cui si ispira e che testimonia il dipinto cimitilese. Attraverso la Maddalena di Cimitile viene, quindi, documentalmente confermata la plausibilità della teoria della transizione di culto dalla bruna Maddalena Incoronata alle nere Madonne Incoronate ed alle Madonne Incoronate in generale.

Resta, a questo punto, il dubbio sulla datazione della Corona e sull’origine di quella particolare foggia che, evidentemente, non era italica, ma francese. A testimoniare l’antichità della corona a tre punte viene la miniatura di una Bibbia carolingia del IX secolo che mostriamo di seguito e che rappresenta Carlo Magno assiso in trono con una corona che non è, evidentemente, la famosa Corona Ferrea.

La forma della corona a tre punte torna anche in altre rappresentazioni come un salterio del IX sec. raffigurante Carlo il Calvo ed i simboli regali29. La corona a tre punte, quindi, già esisteva nella Francia della fine dell’VIII secolo, anni in cui salì al trono Carlo Magno. Possiamo anche proporre una ipotesi sulla sua possibile origine. E’ nostra convinzione che la foggia della corona a tre foglie possa aver preceduto quella a tre punte riprendendo una tradizione ancor più antica che potrebbe aver preso le mosse in Gallia dal costume di coronare la testa dei re e dei vincitori ispirata, probabilmente, a quanto accadeva nel costume romano. Le foglie ed il rami intrecciati a cerchio, potrebbero essere stati ripresi nella formazione della foggia della tipica corona medievale “à fleurons“. Le tre punte dovevano avere una funzione simbolica particolare confermata, a nostro avviso, dalla mano di Dio che si stende sulla testa di Carlo il Calvo nel suddetto salterio. In particolare riteniamo che le tre foglie tripartite rappresentassero l’unità della trinità nella figura regale che manifestava, quindi, la congiunzione tra la funzione regale e quella divina.

Ma torniamo alle basiliche di Cimitile. A rafforzare la nostra convinzione inerente la datazione dei due affreschi delle lunette al IV secolo è l’altro dei due dipinti raffigurante S. Eusebio. Soffermiamoci allora su questa raffigurazione ed in particolare sulla identità del personaggio.

Che si tratti di S. Eusebio ci è confermato dalla dicitura visibile (EUSEBIUS) a destra del Santo. Un interessante particolare che accomuna i due dipinti (la Maddalena ed Eusebio) a quelli del ravennate, non ripreso in alcuno dei dipinti fino ad ora visti, è nella forma e nella realizzazione delle due aureole. Entrambe hanno un bordo scuro in cui sono incastonate pietruzze bianche a mo’ di mosaico. Questo modo di rappresentare l’aureola è comune solo alle basiliche bizantine di Ravenna. Nella immagine seguente sono comparate le due raffigurazioni da cui si evidenzia la similitudine anche nel modo di rappresentare il viso, di marcare i contorni e nello sviluppo piano in cui i chiaroscuri sono pressoché assenti.

Ma a quale S. Eusebio si riferisce il dipinto? La presenza del libro, la dalmatica rossa tipico abito vescovile, l’aureola che identifica il santo sembrerebbero ricondurci a S. Eusebio vescovo di Vercelli cui è attribuita la prima traduzione in latino dei Vangeli (il duomo di Vercelli conserva ancora un codice di quella traduzione, attribuito al vescovo), eppure, anche in questo caso, le lettere di Paolino aprono una diversa e straordinaria possibilità di identificazione. In una delle sue primissime lettere scritte dopo soli due mesi dall’avvio della personale attività monastica iniziata con il trasferimento dalla Spagna a Cimitile, Paolino scrive a S. Agostino quanto segue:

In verità io, sebbene inferiore a te in tutto, con un dono che potesse ricambiare in qualche modo il tuo, ti ho procurato, così come avevi chiesto, la famosa Storia Universale di Eusebio, venerabile vescovo di Costantinopoli … Ad ogni modo, poiché ti sei degnato di indicarmi anche i luoghi dove potevi trovarti, così come tu stesso avevi consigliato, ho scritto al nostro padre Aurelio, tuo venerabile collega nella dignità episcopale, di modo che, qualora attualmente tu ti trovassi ad Ippona egli abbia la cortesia di inviarti colà la mia lettera e questo codice membranaceo dopo averlo fatto trascrivere a Cartagine … affinché al nostro parente Domnione non mancasse troppo a lungo il suo codice e quello a te trasmesso restasse a tua disposizione senza necessità di restituirlo.

L’equivoco che porta Paolino a confondere Eusebio da Cesarea con Eusebio vescovo di Costantinopoli è alquanto singolare, visto che il secondo fu, fino alla morte, un acerrimo sostenitore di Ario e della eresia gnostica. L’errore appare ancor più vistoso ed inspiegabile se si constata come Paolino, sebbene non possedesse il testo in precedenza, ne conosceva la fama e se si pensa che egli lo stava inviando ad Agostino in cambio dei suoi scritti appena pervenutigli in cui Agostino confuta le eresie del periodo. Va anche detto che, con questa lettera, la prima che Paolino invia ad Agostino, egli si propone di instaurare una amicizia salda con un personaggio che fino ad allora conosceva solo per fama, probabilmente l’evento avrebbe meritato una maggiore attenzione. Sicuramente né Eusebio da Cesarea né, ovviamente, Eusebio da Costantinopoli sono divenuti santi, ma il termine venerabile, adottato da Paolino, la disconoscenza dei fatti che egli dimostra nella epistola accompagnata dalla importanza che Paolino dà all’opera di Eusebio, suggeriscono una diversa interpretazione delle due rappresentazioni nella cappella dei S.S. Martiri, ma per giungerci dobbiamo operare una breve digressione. Sappiamo che la lettera 3, ora citata, fu scritta nel 359 poco dopo l’arrivo a Nola, mentre la 23, vista in precedenza (quella in cui si parla della Maddalena) fu scritta 5 anni dopo. Ciò che esisteva, all’arrivo di Paolino, era sicuramente la cappella dei Martiri priva dei numerosi affreschi fatti realizzare in parte proprio da Paolino. Sappiamo anche che Paolino fece portare a Nola i frammenti della Santa Croce e che manteneva un particolarissimo interesse per reliquie quali quelle di S. Felice cui era profondamente devoto. La vistosa corona che campeggia sulla testa della Maddalena non può non richiamare quella che compare nella scritta marmorea apposta sotto il protiro realizzato dal vescovo Leone III che recita:

Basilica de’ S.S. Martiri la quale è un intero pozzo, pieno delli corpi e sangue delli suddetti, e si sente bollire ne’ giorni de’ loro natali. Una donna incredula vi calò la corona e la tirò su piena di sangue, le cui gocciole incavarono il marmo. A man destra si vede il luogo ove S. Felice fu difeso dalle tele d’Aragni.

Il giorno dei natali è da intendersi come giorno del martirio fatto coincidere con quello della passione di Gesù, mentre l’ultimo episodio parla di un salvataggio miracoloso di S. Felice che in fuga fu nascosto dalle ragnatele tessute velocemente da un gruppo di ragni. Nella lapide si narra di “una” donna e non di una regina, ma nel contempo di parla “della” corona, come se l’oggetto fosse essenziale nella narrazione e fosse preesistente al fatto. In buona sostanza non crediamo sia peregrina l’ipotesi che la corona fosse una delle reliquie conservate nella cappella, proprio sull’altarino di fronte alla Maddalena, ciò spiegherebbe un gesto, altrimenti alquanto anomalo, quale quello di introdurre una corona in una pozza di sangue: il gesto, probabilmente, racchiudeva un consolidato rituale. Approfittando della leggenda che voleva la Santa di stirpe regale, anche per il suo legame spirituale con Gesù, è possibile che si ritenesse la corona come appartenuta alla Santa, conciliando la leggenda della goccia di sangue che scava la roccia e quella della corona della Maddalena. Il gesto rituale avrebbe avuto anche un forte valore simbolico nell’ottica della funzione che Paolino conferisce alla Maddalena: essendo, infatti, essa il simbolo della Chiesa, la sua corona era la corona stessa della Chiesa che immersa nel sangue dei Martiri assumeva una potente funzione allegorica. Il gesto compenetrava in sé la Chiesa ed il Sangue dei Martiri, e probabilmente, poggiandosi la corona sul capo i fedeli intendevano acquisire una duplice benedizione. Se, allora, l’altarino di fronte alla Maddalena era destinato alla corona vistosamente rappresentata sul capo della Santa, è intuibile che quello simmetrico dedicato a S. Eusebio contenesse il voluminoso libro che egli mantiene sotto il braccio e che quel libro fosse proprio il testo membranaceo della “Storia Universale” che, come si legge dalla epistola, dovette tornare a Nola dopo essere stato ricopiato per Agostino. In quest’ottica la funzione teologica delle due figure è abbastanza chiara. S. Eusebio con la sua Storia Universale rappresenta il cristianesimo come fulcro della storia dell’Uomo. La storia stessa culmina nel cristianesimo e nella fondazione della Chiesa di Roma. La Maddalena, dal canto suo, come Paolino stesso indica, è il simbolo stesso della Chiesa, ed è allora chiara la scelta di decorare con medesimo motivo, la cintura della Santa sul libro che S. Eusebio tiene sotto il braccio.

Cintura della Maddalena – Particolare della decorazione comparato con la decorazione sulla copertina del libro tra le mani di S. Eusebio.

La mancanza di affreschi simili sulla parete (fatta eccezione per il Cristo sul trono e per i dipinti nelle parti interne dell’arco) conferma la nostra convinzione che si sia voluto dare risalto, fin dalla costruzione del muro nella basilica, alla figure in esso rappresentate (Cristo, Eusebio e la Maddalena).

Soffermiamoci, a questo punto, sugli oggetti che le due Maddelene cimitilesi portano tra le mani. L’unica differenza evidente è nell’oggetto che la figura intera ha tra le mani e che ci riporta a quelli che appaiono nella immagine a mezzo busto sotto le maniche del vestito. Nella figura a busto intero il braccio destro regge un oggetto scuro che sembra l’estremità del medesimo oggetto chiaro che è sotto il braccio sinistro. Sebbene le due estremità diano l’impressione d’essere la testa di due bimbi, l’uno biondo l’altro bruno, la mancanza della parte inferiore dei presunti due corpicini ci porta ad escludere questa ipotesi30, l’oggetto parrebbe, invece, essere una sorta di rotolo di notevoli dimensioni. E’ proprio l’immagine ridotta del medesimo rotolo nella figura a mezzo busto che emerge sotto le due braccia della Maddalena nell’altare che ci fa desumere che proprio di questo oggetto possa trattarsi. E’, a questo punto, evidente che il rotolo in questione non può che essere il telo sindonico. Infatti la Maddalena nella figura a mezzo busto è raffigurata prima della passione con il simbolo che ne preannuncia l’imminenza: il vaso. Il telo appare ridotto per dare rilevanza al simbolo degli oli profumati della unzione. Nella figura a busto intero, la Maddalena è ritratta dopo la Passione quale depositaria della preziosa reliquia e quindi della prova della resurrezione. E’ infatti, proprio la Maddalena la prima a recarsi nel sepolcro e la prima a vedere il Cristo risorto. La Passione ed il sangue del Martirio con la regalità della sposa mistica che dalla Maddalena si estende a tutti gli apostoli ed ai Martiri, sembra, quindi, essere il tema dominante della cappella. Lo stesso Paolino, nelle sue epistole (es.: nella epistola 3,4) parla di “stirpe regale e sacerdotale” riferendosi all’apostolato.

Come anticipato, vogliamo chiudere questo lungo paragrafo con un forte senso di amarezza.

La foto che riportiamo è tratta dal bel volume di Arcangelo Mercogliano Le Basiliche di Cimitile (ed. Barone) ed espone la situazione al 1988. E’ con sincero dolore che constatiamo l’ulteriore degrado e lo scempio cui è stato sottoposto il dipinto. Oggi la cintura della Maddalena è del tutto scomparsa, come scomparsa è la scritta che appariva a sinistra della testa. Uno sciagurato intervento privo, a nostro avviso, di senso, con il quale sono state coperte con uno spesso strato di intonaco a base cementizia (notoriamente isolante) le pareti della cappella di S. Giacomo subito dietro il dipinto della Maddalena, ha provocato una copiosa traspirazione attraverso il dipinto che risulta, oggi, vistosamente coperto di sali minerali con parti irrimediabilmente perse come il nome stesso della figura. La cintura, probabilmente per effetto di questo e di altri sciagurati interventi che nulla avevano a che vedere con il recupero, è scomparsa del tutto, essendo crollato l’intonaco che la sosteneva.

Ma il danno irreparabile non finisce qui. Il libro di Mercogliano (pag. 224) parla della figura intera della Maddalena, segnalando che la santa (che non identifica) appare riccamente addobbata e sormontata da corona: di quella corona non v’è traccia, essendo stata cancellata insieme all’intonaco che era al di sotto: ma da chi? Evidentissime sono le tracce di schizzi di cemento sulla figura che, quindi, non è stata protetta durante gli interventi. Abbiamo rilevato anche quelle che sembrano abrasioni di spazzola effettuate, forse, per far fronte al danno che si era procurato. E’ indispensabile un immediato intervento per salvare queste due opere di inestimabile valore non solo artistico, ma storico e teologico che gettano una luce definitiva a testimonianza delle trasformazioni del culto cristiano e della epurazione delle componenti ritenute troppo vicine alle eresie gnostiche con assimilazione e trasformazione in altri culti.

Abbiamo doverosamente, segnalato il problema che ha trovato pronto e sensibile riscontro nelle persone dei professori Sersale e Marino del Dipartimento di Ingegneria dei Materiali dell’Università di Napoli, i quali si sono fatti carico di un articolo denuncia che uscirà, probabilmente, in contemporanea alla pubblicazione di questo nostro. Crediamo sarebbe opportuno non alimentare nuove leggende in merito alla deliberata volontà di distruggere tutto ciò che può riportarci alla verità sulla storia del Cristianesimo, già ricca di momenti oscuri per fortuna passati ormai da tempo.

L’eresia catara, il Vangelo di Filippo ed il mosaico di Otranto

Nella convinzione che l’eresia Catara trovi parziale riscontro anche nell’opera musiva di Pantaleone riportiamo di seguito un brano trattato dalla Historia Albigensis di Pierre de Vaux de Cernay31. Il lungo estratto evidenzia gli aspetti principali della eresia che ritroviamo nell’opera musiva di Pantaleone:

Prima di tutto, bisogna sapere che gli eretici ritenevano che ci siano due Creatori; cioè uno delle cose invisibili, che chiamano il Dio buono, ed un altro delle cose visibili, che chiamano il Dio maligno. Attribuivano il Nuovo Testamento al Dio buono e l’Antico Testamento al Dio maligno e quest’ultimo lo rifiutavano interamente, con l’eccezione di alcuni passi che sono accolti nel Nuovo Testamento; questi ultimi li ritenevano degni di essere accolti per la riverenza dovuta al Nuovo Testamento. Essi accusavano l’autore dell’Antico Testamento di falsità, poiché il Creatore disse: “Nel giorno che mangerete dell’albero della conoscenza del bene e del male, morirete”; ma (dicono) dopo averne mangiato non morirono; mentre, invero, dopo aver mangiato il frutto proibito (gli uomini) furono assoggettati alla miseria della morte. Lo chiamano anche omicida, sia per aver bruciato Sodoma e Gomorra ed aver distrutto il mondo con le acque del diluvio, sia per aver scaraventato nel mare Faraone e gli Egiziani. Affermavano anche che tutti i padri dell’Antico Testamento erano dannati; che Giovanni il Battista era uno dei più grandi demoni. Essi dicevano anche, nella loro dottrina segreta, che quel Cristo che era nato nel mondo visibile, nella Betlemme terrestre, e fu crocifisso a Gerusalemme, era malvagio, e che Maria Maddalena era la sua concubina; e che era lei la donna sorpresa in adulterio, di cui leggiamo nel vangelo. Poiché il Cristo buono, dicevano, non mangiò mai, né bevve, né prese su di sé carne mortale, né fu mai in questo mondo, eccetto che spiritualmente nel corpo di Paolo … Dicevano che quasi tutta la chiesa di Roma era un covo di ladri; e che era la prostituta di cui si legge nell’Apocalisse. Erano così contrari ai sacramenti della Chiesa, da insegnare pubblicamente che l’acqua del Santo Battesimo equivaleva in tutto all’acqua di un fiume e che l’Ostia del Santissimo Sangue di Cristo non era diversa da un pane comune, instillando nelle orecchie dei semplici questa bestemmia, che il corpo di Cristo, anche se fosse stato grande come le Alpi avrebbe dovuto da tempo essere consumato e distrutto da quelli che ne avevano mangiato. Consideravano la Cresima e la Confessione inutili e frivole. Predicavano che il Santo Matrimonio equivaleva al meretricio e che nessuno poteva salvarsi in esso, se avesse generato dei figli. Negando anche la Resurrezione della carne, inventavano delle storie inaudite, dicendo che le nostre anime sono quelle di spiriti angelici che, scaraventati giù dal cielo a causa dell’apostasia dell’orgoglio, lasciarono in aria i propri corpi glorificati; e che queste stesse anime, dopo aver dimorato in successione in sette corpi terrestri, di una specie o dell’altra, avendo alla fine adempiuto la propria penitenza, ritornano ai loro corpi abbandonati.

Pur tenendo conto del fatto che la testimonianza è fortemente inficiata dall’atteggiamento negativo che il monaco cistercense premette alla sua analisi va anche detto che le rare testimonianze (principalmente interrogatori della Santa Inquisizione) sono abbastanza concordi. Il primo aspetto rilevante è sicuramente la testimonianza del concubinaggio tra la Maddalena e Gesù in cui credevano i Catari ma che, a differenza di quanto si può pensare visto il puritanesimo estremo dei Catari, è in linea con la loro teologia. In effetti i Catari distinguevano nettamente l’apparenza corporea – che viene da loro associata inequivocabilmente al dio dal male, come ogni cosa visibile – ed il Gesù spirituale. Il Gesù carnale può aver fatto e forse ha fatto realmente, nella visione catara, ogni sorta di male. Se vogliamo questo è il classico dualismo gnostico ed è anche uno dei principi esposti, tra gli altri testi, anche nel Vangelo di Filippo ove la materia è lo strumento con cui gli Arconti ingannano l’uomo. Interessanti sono, ad esempio brani come questo, tratti dal Vangelo di Filippo (54,20):

Gli arconti vollero ingannare l’uomo a motivo della sua parentela con quelli che sono veramente buoni. Presero il nome di coloro che sono buoni e lo attribuirono a coloro che non sono buoni …

Quindi nessuna meraviglia che il nome di Gesù venga associato a pratiche sessuali illecite con la Maddalena. Del resto il disprezzo per il Gesù materiale e l’adorazione per quello spirituale poteva ben conciliarsi con un analogo atteggiamento per la Maddalena e quindi il disprezzo per la Maddalena carnale ed il culto per la Maddalena spirituale massima espressione del pensiero gnostico ed esempio nella ricerca della ricongiunzione al Padre. E ancora, ecco come il Vangelo di Filippo ci aiuta a capire il dualismo del Gesù cataro(55,30):

C’è chi dice<< Maria ha concepito per opera dello Spirito Santo>>. Sbagliano. … Quando mai una donna ha concepito per opera di una donna? Maria è la vergine e non fu mai contaminata da alcuna forza … E il Signore non avrebbe detto:<> se non avesse avuto un altro padre. Egli avrebbe detto semplicemente: <>

Il brano è perfettamente in linea con la polemica delle Toledot ebraiche e quella di Celso che voleva Gesù figlio di un soldato romano di nome Pandera. Anzi l’adulterio è in perfetta linea con la separazione tra il Gesù spirituale e quello carnale cui, proprio perché materiale, sono possibili ogni sorta di perversione. Lo stesso argomento della non credenza nella resurrezione dei corpi è tipico del Vangelo di Filippo(56,30):

Alcuni temono di resuscitare nudi, perciò desiderano resuscitare nella carne. Costoro non sanno che proprio quanti portano la carne sono nudi … <> … <>. Che significa? La sua carne è il Logos ed il suo sangue è lo Spirito Santo. Colui che ha ricevuto questo ha cibo, bevanda e vestito.

Chi avesse letto questo brano e gli altri simili del Vangelo di Filippo non poteva non pervenire alla conclusione che l’eucarestia non aveva valore. Un discorso analogo vale per il Battesimo. Ecco cosa afferma il Vangelo di Filippo in merito (64,30)

Se uno scende nell’acqua e ne risale senza avere ricevuto nulla e dice: <>: costui si prende in prestito il Nome. Ma se riceve lo Spirito Santo, costui ha il Nome come dono. A colui che ha ricevuto un dono non lo si domanda indietro.

Anche per il Matrimonio vale il medesimo discorso, seppure il brano riportato dal monaco non è attendibile in quanto ritroviamo altri brani in cui il matrimonio, pur riconosciuto come fonte di peccato, non lo è se lo scopo resta quello della procreazione. Nella Summa de Chataribus di Raniero Sacconi si legge:

Condannano anche il sacramento del matrimonio, dicendo che i coniugi commettono peccato mortale se si uniscono senza aspettativa di generare – inoltre, non si curano della compaternità, disprezzano i gradi di affinità carnale e spirituale e gli impedimenti degli Ordini (monastici) e del pubblico pudore e le proibizioni della chiesa … dicono anche che la chiesa ha sbagliato nel proibire il matrimonio del clero, mentre la chiesa orientale lo ammette.

Questo duplice atteggiamento sul matrimonio è visibile anche nel Vangelo di Filippo (65,10) ove si legge:

Vi sono spiriti impuri maschili e femminili: i maschi si associano alle anime che hanno preso domicilio in corpi di femmine e i femminili sono associati a quelle dei corpi degli uomini a motivo di colui che disobbedì: e non sfugge loro alcuno – poiché essi lo trattengono – a meno che uno non riceva una forza maschile e una forza femminile e cioè quella del fidanzato e della fidanzata. Questo poi si riceve in immagine nella camera nuziale.

Anche se in Filippo il matrimonio diviene la massima espressione del cristiano gnostico ed è una via indispensabile per la ricongiunzione degli Eoni al Padre (69,30):

La redenzione ha luogo nella camera nuziale. Ma la camera nuziale è superiore ad essa poiché tu non troverai nulla come essa.

Del resto l’accoppiamento casto dei due elefanti (Gesù e Maddalena secondo la nostra ricostruzione) alla radice dell’albero nel mosaico è chiaramente vicino a questa posizione e non a quella estrema dei Catari.

Ma passiamo ora al più interessante degli aspetti: la visione veterotestamentaria dei Catari. Cominciamo col dire che, in periodo post-iconoclasta e sulla base della repulsione che i Catari avevano per le reliquie e per le immagini, la rappresentazione veterotestamentaria può essere consentita solo a patto che non la si ritenga sacra. Tutto ciò che è sacro, invece, se vogliamo addentrarci nella mentalità di un cataro o di uno gnostico vicino a questo modo di vedere il mondo, va espresso in forma allegorica. E’ forse questo il motivo per il quale Pantaleone rappresenta in forma chiara e leggibile le scene veterotestamentarie e in forma simbolica e nascosta quelle neotestamentarie (la croce, la Maddalena, ecc.). Agli occhi di un eretico gnostico che si ispirasse al Catarismo, il Vecchio Testamento appariva come un inganno del Demonio e quindi del Dio del Male. Scene come il diavolo al centro della chiesa (il serpente), le scene grottesche di re Artù nel paradiso terrestre, o dei mostri Leviathan e Melusine (Abraxas) lì dove ci dovrebbe essere Dio o della nascita non verginale di Cristo attraverso il soldato Pandera (la pantera alata) sembrano più che plausibili, anzi obbligate in quest’ottica. La polemica anticlericale di Pantaleone che ci invita ad uscire dalla chiesa seguendo l’albero, pare tutt’altro che irreale.

Il dualismo bene-male lo ritroviamo in tutta la sua forza ed in tutte le parti del mosaico. Due alberi del bene e del male (non inclusi nelle figure del precedente articolo, e grandi un quarto di quello centrale) campeggiano nelle navate laterali, ed entrambi sono alquanto enigmatici. L’albero del male nella navata sinistra, ricco di scene che l’amico Corona ha associato giustamente a varie scenografie dantesche, contiene un elemento emblematico: in cima ad esso, a sinistra (e quindi dallo stesso lato del male nell’albero del male) ci sono i patriarchi Isacco, Giacobbe e Abramo. Solo un cataro avrebbe collocato i Padri del Vecchio Testamento in ciò che è inequivocabilmente l’Inferno. Ma lo stesso albero del bene, nella navata destra, non differisce molto. Scene strane come quella di un leone (scritto in maniera altrettanto strana L Eone?) che mangia la coda di un serpente che a sua volta mangia una capra non sembrano simboleggiare nulla di associabile al bene, tantomeno se si pensa che in basso a destra c’è, addirittura, un Minotauro famoso per i sacrifici umani che gli erano tributati e non a caso un richiamo al labirinto quale quello che campeggia al centro della cattedrale di Chartres. Inutile dire che, nella visione catara, il Vecchio Testamento è un inganno come un inganno è la morte della quale vengono minacciati Adamo ed Eva per aver mangiato dall’albero del bene e del male. Un inganno cui solo gli stupidi possono credere gli stupidi che si credono Re, come Artù, ma che cavalcano una capra usurpando titoli (quelli di cristiani) che non gli appartengono ottenuti anche questi con l’inganno (il gatto con gli stivali). Malvagio è il dio demoniaco dell’Antico Testamento, nella eresia catara, che distrugge il mondo e che al Noè implorante fa costruire una Arca per salvare l’umanità. Eppure la generazione che esce fuori da quell’Arca è una serie tremenda di mostruosi uomini imbestialiti, animali immondi e multiformi ma pur sempre uomini (vedi parte centrale inferiore destra del mosaico). Ed in tutto ciò l’uomo cerca mezzi assurdi per raggiungere Dio: la torre di Babele (al centro a destra) o i grifoni su cui Alessandro vuol raggiungere il cielo (al centro a sinistra).

La stessa Croce – l’albero che campeggia al centro della chiesa, raffigurante quella su cui fu crocefisso Cristo – viene sbeffeggiata, facendo sedere una donna nuda su uno dei bracci e facendola sorreggere da due elefanti che si accoppiano seppure castamente.

Dai Catari al progetto Templare

In tutto questo, però, c’è un problema ineliminabile. I Catari appaiono, sebbene ispirati chiaramente da testi gnostici (a nostro avviso il Vangelo di Filippo), estremamente rozzi e primitivi per elaborare un opera complessa e teologicamente esplosiva come il mosaico. Inoltre stridente appare il percorso complesso della ricerca gnostica che vede nella Maddalena la massima espressione di colei che intuisce le vie per la ricongiunzione al Padre (vedi Pistis Sophia) con i rozzi Catari. Essi rappresentano, molto più probabilmente, solo la parte visibile di una corrente di pensiero assai più complessa di matrice chiaramente gnostica, che adoperava il catarismo come strumento per combattere e distruggere la Chiesa esponendo solo la parte “popolare” di quel pensiero e riservando a pochi eletti la visione profonda e la ricerca dura, con un “viaggio iniziatico” attraverso diversi livelli di misteri che ritroviamo in opere ancor più difficili da decifrare del mosaico e del Vangelo di Filippo come la Pistis Sophia. In questo quadro il culto della Maddalena e quello della “camera nuziale” del Vangelo di Filippo, resta prerogativa degli Eletti. I Templari erano certamente, tra coloro che oggettivamente e culturalmente potevano aspirare a questo ruolo. Del resto, sebbene le interconnessioni tra essi ed i Catari non siano, stranamente, mai state usate come elemento di accusa nei processi inquisitori, sono ormai molti coloro che ritengono che sia difficile negare una fortissima interrelazione tra questo gruppo di cavalieri e gli eretici di Linguadoca. Abbracciando questa tesi non si può non notare che il disprezzo per la Chiesa ufficiale, tipico del mondo cataro doveva essere solo un pallido riflesso di quello che questo gruppo di Eletti provava.

Eppure se i Templari erano davvero gli ispiratori del movimento o comunque erano in qualche modo collegati ad esso (come vari elementi sembrano indicare e come anche dalla nostra analisi emerge) è evidente che l’aver deciso di operare all’interno della Chiesa per distruggerla comportava una notevole capacita di autocontrollo e di scissione della missione da compiere dallo strumento per portarla a termine che ben si concilia con chi demonizza la materia e la carne ma nello stesso tempo venera il simbolo spirituale che rappresenta (vedi l’atteggiamento dei Catari verso il Cristo). Da quello che abbiamo appurato la missione potrebbe essere stata duplice: fondare politicamente ed economicamente (furono i primi banchieri d’Europa) un nuovo impero cristiano con sede a Gerusalemme e restituire il trono di Francia ai legittimi discendenti (i Merovingi) disgregando e distruggendo la struttura ecclesiastica dall’interno.

Ma era proprio questo l’obiettivo? Tutto ciò, comporterebbe un attaccamento materiale ad un ipotetico regno terreno che mal si concilia sia con l’ideale cataro e con quello gnostico degli Eletti di Dio. Il rifiuto del titolo di re di Gerusalemme da parte di Goffredo di Buglione sembrerebbe smentire questa ipotesi, eppure le ricchezze accumulate, lo sforzo dei Templari nel divenire un riferimento economico mondiale, sembrerebbero indicare il contrario. La pista catara ci consente però di spiegare alcune anomalie tipiche delle manifestazioni Templari:

– gli strani riti con i quali essi manifestavano il proprio attaccamento all’ordine quali quello di sputare sulla Croce: essi, infatti, separavano il Gesù materiale diabolico da quello spirituale. Chi sputava sulla croce, consapevole del valore spirituale del Cristo e non di quello materiale del Gesù in carne, o addirittura del suo simulacro in legno, era degno di entrare nel l’Ordine;

– la loro vita dissennata compatibile unicamente con il doppio status materiale intrinsecamente demoniaco e spirituale, intrinsecamente divino;

– le azioni oltraggiose praticate riempiendo le chiese con simbolismi allusivi. Le chiese erano luoghi privi di valore come le rappresentazioni e le reliquie nella visione catara;

– il modo in cui questi uomini, convinti della loro superiorità e del fatto di essere i prescelti, agivano machiavellicamente, mistificando miti e creando leggende, adoperando qualunque mezzo anche quelli moralmente più riprovevoli.

Purtroppo parallelamente divengono inspiegabili altri costumi e vicende. Tra le cose poco chiare c’è, di certo, la frenetica caccia di reliquie che vede coinvolti i Templari. Nell’ambito della teologia gnostica e catara, non si capisce quale interesse potessero avere i Templari per le reliquie visto che, almeno sulla carta, essi avrebbero dovuto al più ignorarle se non odiarle per il culto materiale che avrebbero generato. Inspiegabile è il loro coinvolgimento nella costruzione dei più stupendi e spettacolari monumenti della Cristianità: le grandi cattedrali gotiche. Tutto sembra portare alla conclusione che il potere terreno e quello materiale, insieme alle opere da essi promosse ed alle ricerche avviate erano uno strumento per un progetto che di terreno non aveva nulla. Diverso sarebbe stato, invece, un interesse per documenti contenenti formulari esoterici, magici o comunque cibo per le menti e gli studi spirituali che essi praticavano come gnostici. Del resto, crediamo di aver provato che essi conoscevano testi come il Vangelo di Tommaso edi Filippo che, però, tenevano lontani dalla portata del volgo ritenendosi, come iniziati-gnostici, gli unici destinatari di quei messaggi. La matrice gnostica che pervade i testi magici dell’epoca e che ispira, insieme al misticismo ebraico, la quasi totalità dei documenti di questo tipo che ci sono pervenuti (un esempio classico è il Papiro Magico di Parigi), ci sembra legata in modo talmente palese all’insieme delle vicende Templari ed alle loro realizzazioni materiali, che non si può non analizzare l’obiettivo non dichiarato dell’azione templare senza tenere ben presente questo aspetto. Sebbene documenti gnostici come ad esempio, la Pistis Sophia ripetano in maniera quasi ossessiva la perdizione cui portano le azioni magiche, condannando la magia come il più grave dei peccati, è anche evidente che molti di questi testi come l’essenza stessa della gnosi invita gli Eletti alla comprensione di questi misteri e di queste pratiche, fornendo essi stessi una miriade di formule ed elementi magico-simbolici più o meno palesi. Proprio la Pistis Sophia rivela, ad esempio, che la venuta del Cristo e soprattutto il suo ritorno nelle sfere celesti ha sconvolto il moto degli astri tanto che questi, dopo la sua azione, emanano i loro influssi in maniera simile a ciò che accadeva prima della venuta di Gesù solo per metà di un ciclo indefinito, mentre per l’altra metà emanano influssi opposti. La Pistis Sophia segnala come questo fa sì che solo una metà delle opere magiche ed astrologiche degli odiati maghi, va a buon fine, mentre l’altra metà è destinata a fallire miseramente. La resurrezione del Cristo, nella visione della Pistis Sophia, ha lo scopo di sconvolgere il normale corso delle cose e l’azione demoniaca delle forze del male e degli Arconti che vogliono la perdizione dell’uomo, abbreviando i Tempi della salvezza delle anime degli Eletti. Insomma l’azione di Cristo risorto è un raggiro ed un inganno per gli Arconti, che reagiscono, di fronte al Cristo risorto ed alla incapacità di riconoscerlo e di comprendere i suoi obiettivi, in modo inorridito cercando, invano, di combatterlo. Nel caos generato Gesù salva Sophia e sconvolge il corso dei pianeti togliendo forza agli Arconti ignari e sconvolgendo lo strumento che consente agli astrologi ed ai maghi (figli di queste forze demoniache) di prevedere il futuro e di portare, in tal modo, con più facilità le anime degli Eoni alla perdizione. In sintesi, quello della Pistis Sophia sembra un invito diretto agli Eletti, a cooperare in questa azione di disturbo creando opere ed elementi che sconvolgano gli Arconti, e partecipando all’azione di salvataggio delle anime degli Eoni che non sanno ancora d’esserlo, per favorirne la ricongiunzione al Padre. La materia e l’inversione dei nomi delle cose buone con i nomi di quelle cattive (vedi precedente brano del Vangelo di Filippo) sono lo strumento “visibile” degli Arconti per ingannare l’uomo nascondendogli la verità del loro losco progetto. Il Vangelo di Filippo invita a diffidare del mondo visibile e dei messaggi che esso trasferisce in forma esplicita all’uomo: essi sono messaggi degli Arconti che vogliono ingannare l’uomo. Nel contempo Filippo invita ad andare oltre la realtà e a cercare non le cose ma la loro immagine ed il loro simbolo consci di questo inganno: lì è la verità. E nostra sincera convinzione che il progetto Templare abbia questo scopo: seminare i simboli di una verità che divenendo falsa nello stesso momento in cui la si palesa visibilmente, viene nascosta dietro le opere visibili ed in particolare nei luoghi di culto per ottenere la salvezza delle anime. Gli uomini, grazie all’opera dei Templari, vengono invitati a venerare la verità che è celata dietro al simbolo da essi creato e non la falsità celata dietro la materia governata dagli Arconti. Un esempio è il culto della Maddalena che essi celano ai credenti dietro il culto delle Madonne nere o dietro i simboli quali la torre nel mosaico di Otranto. Lo stesso albero della vita dietro cui si cela lo strumento di morte e tortura odiato da Catari e Templari, diviene il simbolo della fonte di vita per l’uomo che è il Cristo-Logos. L’inganno, il segreto, la leggenda, le opere letterarie che essi ispirano sono uno strumento simbolico di salvazione per l’uomo e che gli Arconti e le forze del male che sono nella materia non devono comprendere. Gli Arconti nascondono la verità del simbolo dietro all’oggetto materiale che lo rappresenta inducendo l’uomo a credere nella materia e a realizzare, invece, il piano di dannazione nascosto dietro il simbolo materiale. A questo progetto gli Eletti rispondono con altre creazioni materiali i cui simboli, però, descrivono verità e rientrano nel progetto di salvezza di Dio.

Questo è, a nostro avviso, il “piano” Templare, e queste le motivazioni per le quali si svolge in modo così inestricabile.

Conclusioni

Il percorso compiuto pur partendo dal simbolismo criptico del mosaico di Otranto, ha riguardato, opere architettoniche, scultoree e pittoriche che coprono un arco di tempo di quasi 2000 anni:

– le basiliche paleocristiane di Cimitile realizzate tra il 300 ed il 900 d.c.

– la cattedrale di S Nicola di Bari, Il mosaico di Otranto, Castel del Monte in Italia e la cattedrale di Chartes tra il XI ed il XIII sec. d.c.

– la medioevale chiesetta di Rennes con le bizzarre costruzioni postume XIX sec. dell’abate Saunière.

In tutte queste costruzioni ed in modo diverso (talora massimamente esplicito come nelle basiliche di Cimitile, talora celato dietro simboli all’apparenza inestricabili come nel mosaico di Otranto), abbiamo evidenziato la presenza di una costante: il culto per Maddalena che, sebbene abbia trovato massima diffusione della Francia Medioevale trova forte eco anche in Italia paleocristiana. Questo culto vede la sua massima espressione in ambito gnostico. La Maddalena assume, nella gnosi, il ruolo di suprema guida per la comprensione dei misteri del Padre. Essa è la prima discepola di Cristo ed è chiaramente indicata come la sua compagna di vita (Vangelo di Filippo). Ovunque questa figura è presente ci riporta in maniera inequivocabile a questo tipo di cultura ed alla eresia che ad essa si riferisce. La persistenza e l’antichità di questo culto ed il fatto che lo si ritrovi anche in opere antichissime che si sono salvate dall’opera censoria operata dalla Chiesa (vedi il caso delle basiliche paleocristiane di Cimitile o degli scritti di Nag Hammadi) ci fa ritenere che esso non sia una componente transitoria e che sia legata ad una convinzione radicata che è stata perpetuata nonostante la persecuzione durissima della eresia gnostica fino al 1200, per poi insabbiarsi dietro il simbolismo criptico dei monumenti templari o dietro il culto delle Madonne nere. L’evoluzione che il pensiero gnostico assume in testi che seguono di pochi secoli la morte di Gesù, quali il Vangelo di Tommaso fino ad opere di una complessità simbolica e teologica prive di eguali come la Pistis Sophia, testimoniano di uno sforzo costante nel tempo cui si sono dedicate intelligenze non comuni. Il pensiero gnostico, espressione di una fede infinita nelle possibilità dell’uomo e nel suo ruolo di protagonista nella ricerca di Dio, fu perseguitato dalla Chiesa ufficiale e centralista fin dai primissimi secoli dell’era cristiana. Questo pensiero, ha ispirato la ricerca alchimistica e magica ed ha rappresentato una sorta di luce nascosta che si è diffusa in modi rocamboleschi durante i primi 1000 anni di vita della Chiesa aprendo, a nostro avviso, o comunque tenendo acceso il lume della ricerca della verità anche in tempi bui. Gli gnostici avrebbero potuto evitare di esporsi, anche se in forme criptiche, se non avessero voluto, a tutti i costi, diffondere il loro messaggio per renderlo visibile ai pochi uomini “spirituali” e nascosto ai tanti uomini “materiali”. Nella loro teologia la persecuzione è una parte inevitabile della loro azione: gli Arconti ingannatori usano la materia per nascondere il loro piano di dannazione, quel piano lo si legge andando oltre la materia nel mondo del simbolo e quindi dello spirito. Gesù ha ingannato gli Arconti ed ha sconvolto il corso della storia sovvertendo l’ordine degli astri che i maghi e gli astrologi, ignari strumenti degli Arconti, adoperano per prevedere il futuro ed essere avvantaggiati nel loro progetto di dannazione dell’uomo. Gli Eletti, come crediamo si ritenessero i Templari, si fanno strumento di un piano inverso che usa la materia e le scienze esoteriche per realizzare un piano a lunga scadenza, che ha lo scopo di nascondere una verità superiore sostituendola alle falsità degli Arconti dietro i simboli materiali. Consci dei diversi livelli di salvazione cui si perviene nel ciclo delle reincarnazioni culminanti nella reincarnazione in un eletto, estendono il loro progetto facendo sì che tutti possano prendervi parte in diversi modi. A coloro che non sono ancora in condizione di avviarsi nel percorso misterico, viene proposto uno strumento che argina l’effetto del male contrastandolo con gigantesche costruzioni simboliche poste nei luoghi di culto: le cattedrali gotiche e le opere scultoree, musive e pittoriche. Questi elementi simbolici celati nelle cattedrali e nelle opere di questi maestri muratori, nascondono diversi livelli di lettura in analogia a quanto avviene con opere letterarie come la Divina Commedia. In generale solo i primi tre livelli (vedi Pistis Sophia) sono aperti alla comprensione e ciascuno dei livelli contiene chiavi di lettura per i livelli successivi. Abbiamo cercato di illustrare questi diversi livelli di lettura applicandoli al mosaico di Otranto, ma siamo certi di avere raschiato solo il primo strato della serie di messaggi che quest’opera, come le altre realizzate nel Medioevo secondo gli stessi principi, nascondono.

Per concludere vogliamo riportare, sempre dal Vangelo di Filippo, alcuni passi che ci sembra commentino bene il quadro che abbiamo provato a ricostruire, che percorre la storia cristiana fino al Medioevo e che, forse, ha trovato anche successivamente, fino ad oggi, sostenitori occulti di un progetto che esiste ed ha effetti solo se rimane nascosto.

La verità in simboli ed immagini

La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli ed immagini. Non la si può afferrare in altro modo.

Vi è una rigenerazione ed una immagine della rigenerazione. Bisogna veramente rinascer per mezzo dell’immagine. Cos’è la resurrezione? L’immagine deve risorgere per mezzo dell’immagine … (Vang. Fil 67,10)

Il Dio del male

Il mondo ebbe origine da una trasgressione. Colui che lo ha creato voleva farlo incorruttibile e immortale; ma fallì e non realizzò quanto sperava. Poiché l’incorruzione del mondo non esisteva non esisteva l’incorruzione di colui che creò il mondo … (Vang. Fil 75,10)

L’uomo perfetto

Non soltanto non riusciranno ad afferrare l’uomo perfetto ma non riusciranno a vederlo poiché se lo vedessero lo afferrerebbero … (Vang. Fil 76,20)

Didattica della gnosi

Si comporta così anche il discepolo di Dio. Se è saggio, comprende la qualità di un discepolo; le forme corporee non l’inducono in errore; valuta piuttosto la disposizione d’animo di ognuno e parla con lui. Nel mondo vi sono molti animali che hanno forma umana; allorché egli li riconosce, getta ghiande ai maiali, getta orzo, paglia ed erba agli animali, getta ossi ai cani. Ai servi dà gli inizi (delle lezioni), ai fanciulli dà (l’insegnamento) perfetto … (Vang. Fil 80,30)

Generazione e creazione

Chi crea lavora in modo visibile ed è egli stesso visibile. Chi genera genera in segreto ed è egli stesso nascosto stando con la sua immagine. Chi crea crea apertamente, ma colui che genera genera figli in segreto. (Vang. Fil 81,20)

Note

1 Episteme n. 5.

2 “La triplice via del fuoco nel mosaico di Otranto”, di Francesco Corona, ed. Atanor.

3 La versione proposta è stralciata e liberamente tratta da una traduzione inglese del testo disponibile in rete al seguente indirizzo:

http://www.fordham.edu/halsall/basis/goldenlegend/GoldenLegend-Volume4.htm.

4 Tratto da Il segreto di S. Nicola di Alfredo Castelli (Martin Mystère N. 96, Sergio Bonelli Ed., Milano).

5 Famoso ordine monastico-cavalleresco, di cui riparleremo. Fondato si dice nel 1118, pare fosse in contatto con i mistici Sufi, una setta islamica che adorava il Dio delle tre religioni, Ebraica, Islamica e Cristiana.

6 Fonte: The Bingham Genealogy Project di Douglas K. Bingham che, probabilmente, adotta le fonti adottate dallo stesso Plantard e, come riferito, secondo alcuni da lui stesso adulterate (rif. online:

http://ourworld.compuserve.com/homepages/dkbingham/GENPROJ.htm#Intro).

7 Tratte dal Bestiario medioevale, di F. Maspero e Aldo Granata, ed. PIEMME, 1999.

8 Small World [New York, Penguin Books, 1984].

9 Nel Medioevo si riteneva che questi animali castissimi si accoppiassero solo per proliferare, e che lo facessero di spalle, per pudicizia. Rimandiamo al precedente articolo per i dettagli.

10 Vedi il precedente articolo. Il mosaico indica, con la coppia Antilope del Mare (Capricorno) e Sagittario nella corona, la data del 22 dicembre, e con i 26 cerchi percorsi 26 volte intorno all’Unicorno l’anno dell’ultima assunzione al trono di Dagoberto II, cui vanno aggiunte le tre punte asimmetriche della stella sull’animale mitologico ottenendo infine 679, che è l’anno di morte.

11 Vedi il precedente articolo. Il cervo è il simbolo di S. Hubert, mentre sig in ebraico è l’atto del voltarsi indietro: quindi Sig-Hubert = Sigisberto.

12 Vedi il precedente articolo. La prima riga corona del mosaico – che mette insieme la leggenda di Gesù figlio di Pandera e compagno della Maddalena (la sirena Melusine), insieme alla coppia Salomone-Regina di Saba ed alla leggenda del Mostro Marino Mervee, pure ricollegata da noi alla sirena Melusine dai lunghi capelli (Nazir in ebraico), all’Abraxas (Drago con due code a forma di serpente che nel mosaico è rappresentato con Melusine) ed alla leggenda del figlio mostruoso della sirena – in pratica sembra confermare la leggenda presente nel testo già citato: Holy Blood, Holy Grail.

13 I Manoscritti del Mar Morto, di L. Moraldi, ed. TEA e UTET, ristampa 1999.

14 de Saint Hilaire: Les sceaux templiers, Puiseaux 1991.

15 Dalla rivista Actualité De L’Histoire Mìsterièuse (rif. online:

http://www.contrepoints.com/jerusalem/pages/06_bblanquefort.htm).

16 Stesso anno della costruzione della cattedrale di S. Nicola.

17 “E’ probabile che le sette – comparse in seguito – dei bogomili e dei catari costituiscano gli anelli di una unica catena, dal momento che il paulicianesimo ha prodotto il bogomilismo, il quale a sua volta avrebbe dato vita, nell’Occidente Medievale, al movimento cataro o ne avrebbe assunto la forma. Tuttavia, la seconda di queste filiazioni è accertata con maggior sicurezza della prima”, Doresse, Rudolph, Puech, Gnosticismo e Manicheismo, VI volume della Storia delle Religioni, edito da Laterza, 1988.

18Pierre tombale carolingienne (771) trouvée en 1884-5 sous l’autel de l’église romane de Rennes-le-Château, ancienne capitale bien déchue du Comté du Razès. Actuellement dans le jardin qui précède le cimetière, posée à plat où elle s’effrite, couverte de terre et des feuilles, et sert de plate-forme au monument du souvenir. Détail curieux, la partie sculptée était à l’intérieur, la partie unie à l’extérieur. Henri Guy, 12, Quai d’Alsace, à Narbonne.“, tratto dal Bulletin de la Société d’Étude Scientifique de l’Aude, tomo 31 del 1927, pag 197.

19 Esempio: “L’inganno del priorato di Sion”, di Robert Richardson, da Gnosis, Primavera 1999.

20 Louis Reau, Iconographie de l’art chrétien, vol. 2, 1958, Press Universitaries de France, pag. 850.

21 Va doverosamente segnalato che il Reau, nella sua analisi, prescinde completamente dalle fondamentali scoperte archeologiche dei testi gnostici di Nag Hammadi (scoperti da pochi anni prima del 1958, data di pubblicazione del suo lavoro, e quindi non ancora sufficientemente noti e studiati). Ne consegue che, relativamente al personaggio della Maddalena, centrale nella Gnosi, l’analisi teologica e iconografica è del volume è ampiamente carente, ignorando del tutto questo fondamentale aspetto.

22 La vistosità della corona nel dipinto cimitilese non può essere giustificata con il fugace riferimento alle origini nobili della Maddalena nella Legenda Aurea. Le dimensioni della corona e l’amplificazione dell’effetto ottenuta attraverso l’ampio nimbo, hanno, chiaramente, un più profondo significato per l’autore del dipinto.

23 Paolino di Nola, Le Lettere, epistola 23-32 (a cura di Giovanni Santaniello, edito da “Istituto Anselmi” – Piccola Opera della Redenzione, Marigliano, NA, 1992).

24 Ibidem, epistola 5-2.

25 La professoressa Castelfranchi, da noi interpellata, esclude l’associazione qui proposta tra la Maddalena e la figura intera nella basilica dei Martiri. Su questa ipotesi, invece, abbiamo trovato convergente l’arch. Mercogliano, profondo conoscitore del complesso ed autore del bel volume segnalato più avanti nel testo.

26 Sia la prof. Castelfranchi che l’arch. Mercogliano hanno escluso che l’abbigliamento possa essere bizantino, collocandolo, invece, nel periodo Svevo-Angioino. Inoltre la professoressa Castelfranchi fa notare che in nessuna costruzione di epoca similare si trova due volte la rappresentazione del medesimo personaggio a figura intera e a mezzo busto.

27 Per approfondimenti: “The Problem of the Ordination of Women in the Early Christian Priesthood”, Lecture delivered in the USA in 1991 by Professor Giorgio Otranto, University of Bari, Italy; translation by Dr. Mary Ann Rossi, http://www.womenpriests.org/traditio/otran_2.htm; Dorothy Irvin, ‘The Ministry of Women in the Early Church: The Archeological Evidence”, in Duke Divinity School Review, Spring 1980.

28 I frammenti dipinti restaurati e ricomposti sono stati ufficialmente presentati il 28 marzo 2000.

29 Per brevità non se ne riporta l’immagine, che è reperibile ad esempio in Storia Universale di Jacques Perenne, pag 36, ed. Sansoni, 1960. In questa immagine la forma a foglia tripartita delle tre punte della corona è ancor più evidente che nella miniatura carolingia riportata nel presente articolo.

30 Non possiamo non ricordare che il particolare dei due bimbi ritorna in alcuni articoli ed opere in cui si parla della esistenza di due figli ottenuti dal matrimonio presunto di Gesù e della Maddalena. In particolare va segnalato La linea di Sangue del Santo Graal, di Laurence Gardner. 1997, Roma, ed. Newton Compton. Nonostante i nostri sforzi non siamo riusciti a trovare quale sia la fonte documentale o leggendaria a supporto di questa teoria che riporta, addirittura, il nome dei due bimbi (Tamara e Giuseppe). E’ nostra convinzione che mescolare, come avviene in questa opera, fatti documentati, leggende, ipotesi e rivelazioni mistiche serva solamente ad allontanare la verità ed a relegare questa, che ci pare una vicenda serissima come crediamo di aver dimostrato con il presente articolo, nel campo delle favole.

31 Il testo è tratto dalla History of the Albigenses and Waldenses (London, C.J.G. and F. Rivington, 1832), pp. 392-394, disponibile in rete all’indirizzo:

http://www.fordham.edu/halsall/source/heresy1.html. La traduzione adottata, opera dell’amico “Frank Powerfull” è anch’essa disponibile in rete:

http://utenti.lycos.it/NUOVAENCICLOPEDIA/Religione/eresia/introduzione.htm. Dal sito dell’amico Frank attingiamo anche per i successivi brani riportati nel presente paragrafo.

Fonte: http://flashdesmond.blogspot.com/

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