Spiritualità

L’Orfismo e i Misteri Orfici

di Attilio Quattrocchi

Uovo Orfico"L’orfismo è il più grande fenomeno religioso di carattere mistico che si affacci alla Grecia del VI secolo, così importante per la storia religiosa del mondo giacché in esso vediamo sorgere Confucio e Lao-Tse in Cina, il Buddha nell’India, Ezechiele tra gli Israeliti, Zarathustra nell’Iran, Pitagora tra gli Elleni."
Così lo studioso Nicola Turci introduceva la trattazione dei misteri orfici nel suo testo del 1923: Le Religioni Misteriosofiche del Mondo Antico, sottolineando come quel periodo, così importante per la storia dell’umanità, fu anche per la Grecia ricco di trasformazioni politiche e sociali, segnando la fine del così detto ‘medioevo greco’, ‘epoca di mezzo’ collocata infatti tra il venir meno delle antiche monarchie descritte da Omero e l’avvento di forme democratiche di governo, come quella ‘paradigmatica’ di Atene.

In un’epoca di convulse e drammatiche trasformazioni, di violenze sanguinarie, di regimi tirannici, l’orfismo sembrò voler richiamare gli spiriti più sensibili al tema della vita morale e spirituale come unico fondamento per una società pacificata e per dare all’uomo speranze oltremondane.

L’orfismo predicò il vegetarianismo, esaltò la Giustizia (Dike) e la Legge (Nomos), vedendo nella morte del piccolo Dioniso sbranato dai Titani l’immagine di ogni violenza perturbatrice del mondo degli uomini, il simbolo del prevalere del Male sul Bene.

Protagonista di questo tentativo di riforma religiosa fu appunto Orfeo, probabilmente un personaggio storico di cui però presto s’impadronì la leggenda, come sempre è accaduto agli antichi fondatori di religioni. Le fonti lo celebrano come un profeta originario della Tracia (come Dioniso), eccelso cantore e suonatore di cetra, capace con la sua arte d’incantare l’intera natura ed ammansire le belve più feroci così come di far sorgere con le sue iniziazioni di far sperimentare all’uomo la sua natura ‘divina’ e fondare così per gli iniziati le più floride speranze di beatitudine oltremondana.

IL MITO
Orfeo (Ορφεύς – lat. Orpheus), così si raccontava, era figlio della Musa Calliope e del re di Tracia Eagro (o, secondo altre versioni, dello stesso Apollo).

Prese parte alla spedizione degli Argonauti nel corso della quale liberò con il suo canto l’equipaggio della nave Argo dalla pericolosa fascinazione delle Sirene. La sua fama, però, fu legata soprattutto alla tragica e sublime vicenda amorosa che lo legò alla bellissima ninfa Euridice, vicenda che nei secoli successivi rimarrà emblematica della lotta che l’Uomo d’ogni tempo deve affrontare ed in cui sempre e fatalmente soccombe, quella tra la Vita (di cui l’Amore è la forza generativa e propulsiva) e la Morte.

La leggenda racconta infatti che Euridice morì d’improvviso perché morsa da un serpente e che per questo l’amato/amante cadde nel più cupo dolore ed in una oscura depressione. Egli si determinò allora a tentare l’impresa più temeraria: quella di valicare le porte dell’Ade, usando la sua arte per ammansire i terribili guardiani dell’Oltretomba e convincere i sovrani degli Inferi a restituirgli l’amata.

Placò Caronte, il traghettatore di anime e poi Cerbero, il terribile cane a tre teste.

Persino Persefone, rapita pur lei dalla Morte quando era ancor fanciulla, anzi, sottratta alla madre Demetra dallo stesso Re degli Inferi, Ade, si commosse dinanzi a quell’Amore che durava oltre le barriere del Tempo crudele e del Fato. Essa convinse il coniuge a lasciar libera Euridice ma Ade lo concesse solo a patto che, risalendo nel mondo dei vivi, Orfeo non si volgesse indietro per vederla. Purtroppo, preso da invincibile amore, il cantore non rispettò la promessa voluta dal dio, si voltò indietro per scorgere le care sembianze della ninfa ma per ciò stesso questa scomparve definitivamente nel Regno dei morti. In preda al dolore Orfeo si rifiutò di partecipare al culto di Dioniso a cui lo invitavano le baccanti e allora queste, infuriate, lo uccisero dilaniandolo, facendogli subire così la stessa sorte di Bacco ad opera dei Titani.

La sua testa venne gettata in un fiume ma essa, poggiata sulla lira continuò a galleggiare e per straordinario prodigio a cantare il suo amore; giunta al mare finì per approdare all’isola sacra ad Apollo, Lesbo. Quello che, invece, restò del suo corpo venne sepolto dalle Muse ai piedi dell’Olimpo e la sua lira, posta sulla volta del cielo, formò la costellazione dello stesso nome.

LA TEOLOGIA ORFICA
Si dice che dal mito l’orfismo trasse la sua ‘teologia’, ma potrebbe darsi che al contrario dalla sua teologia ed antropologia fosse derivato il mito, che, cioè quei racconti fantastici fossero una ‘rielaborazione’ e ‘giustificazione’ delle esperienze ‘sciamaniche’ ancestrali del popolo greco.

Ciò non sarebbe del tutto assurdo se si pensa alle credenze sulla origine soprannaturale del nostro spirito documentabili anche nella Grecia più arcaica attraverso i racconti che si riferivano a figure di maghi e taumaturghi e profeti quali Abaris, Aristea, Epimenide ed altri vissuti, stando sempre alla tradizione, ben prima di Orfeo.

Al di là di ogni ipotesi storico-ricostruttiva è certo è che la visione sapienziale orfica, in base ai documenti che ci sono giunti, si radicava sull’asserita ‘certezza’ (conseguita tramite esperienze iniziatiche) che nel corpo dell’uomo ‘abiti’ un’anima immortale, capace sin da ‘viva’ di conoscere il mondo divino da cui proviene e a cui tende a ritornare dopo la Morte.

I racconti ‘orfici’ che ci sono giunti ripercorrono sostanzialmente la via della cosmogonia esiodea. Infatti l’idea di fondo è la stessa: quella che il mondo ‘ordinato’ che noi conosciamo è nato (attraverso una serie di vicende di cui sono protagoniste ‘figure’ divine) da un caos originario che si è andato evolvendo verso il mondo attuale.

Per gli orfici tre sono le forze primordiali: la Vita (Zas, da zèn = vivere), il Tempo (Chrόnos) e la Materia (Chtoniè). Sono queste le potenze che ordinano il Mondo a seguito di una lotta tra Chronos ed il Serpente del Male, Ophioneus, il principio del caos (Orig., C. Celsum, 6, 42, [40]). Lotta molto simile a quella raccontata dalla tradizione babilonese tra il dio solare ed ordinatore Marduk e il Serpente/Dragone Tiàmat, origine del Caos e del Male.

Secondo un’altra versione riportata da Damascio (De princ., 123) le forze primordiali furono Chronos, Aither (Aria = Psiché = Pneuma = Vita) e Chaos. Chronos, stando a tale racconto, fabbrica all’interno dell’Aere un Uovo (simbolo della forza generativa che si concretizza sul piano materiale) da cui uscì Phanes, il Brillante, la Luce. Questi si accoppia con la Notte e produce il Cielo e la Terra che unendosi a loro volta generano Crono da cui nasce Zeus, padre di Persefone, la quale è madre di Dioniso, il quale per la sua nascita è Uomo/Dio, Figlio di Dio (questo è per molti studiosi anche il significato etimologico del suo nome).

Gli orfici lo chiamano per lo più Zagreus. Egli ha ricevuto dal padre Dio il dominio del Mondo ma i Titani, aizzati dalla gelosa Hera, lo uccidono mentre ancora bambino si divertiva con dei giocattoli, tra i quali una pigna, una trottola, uno specchio. Il piccolo Figlio di Dio cerca di sfuggire alla morte cambiando forma ma quando assume quella di toro i Titani lo afferrano e lo fanno a brandelli, divorandolo poi crudo.

Tuttavia Athena riesce a salvare il cuore di Zagreus, lo riporta al Padre che lo incorpora mangiandolo e poi insemina Semele da cui nasce il nuovo Dioniso. I Titani vengono folgorati da Giove ma dalle loro ceneri nascono gli uomini che hanno in sé il principio titanico del Male (il corpo) ma anche quello dionisiaco del Bene (l’anima).

Il corpo per questo ‘racchiude’, ‘vincola’, ‘limita’ un principio spirituale che è di origine divina; è così la ‘tomba’, il ‘carcere’, dell’anima.

L’uomo che vuole conoscere la sua vera natura deve separare la sua coscienza dal corpo e dai suoi bisogni, e per ciò stesso allontanarsi da ogni passione giacché l’essenza di essa è quella di una forza sottile, invisibile ma violenta, capace di sottomettere la coscienza alla sola dimensione materiale, tutta espressa nei bisogni corporei.

Lo spirito non deve essere ‘violentato’ dal corpo.

Per questo la parola ‘passione’ indica il subire violenza ed il soffrire; la libertà interiore, insomma, si ottiene solo con la vittoria del principio spirituale su ogni malvagità ‘titanica’. Di conseguenza vita morale e vita spirituale coincidono.

L’Uomo ha ‘dimenticato’ la sua vera natura nel momento in cui la sua anima è precipitata in un corpo, cioè nella densità e oscurità della Materia: per questo l’unico rimedio possibile è nel Ricordo, nella Memoria.

Si può capire così il senso profondo del gioco di parole tipico dell’orfismo per il quale il corpo soma (σωμα) è anche sèma (σήμα), cioè ‘tomba’.

Da tale tomba l’anima può e deve svincolarsi e ‘risorgere’. L’uomo paga però, secondo il mito ‘sapienziale’, una colpa originaria, primordiale, non sua ma dei Titani.

Per ‘purificarsi’, cancellare quel peccato originale, l’uomo deve dunque affrancarsi dal corpo, dai suoi limiti, dalle sue passioni, dalla sua cieca e abbrutente concupiscenza. Deve vivere una vita ‘pura’, cioè moralmente ispirata al Bene, iniziaticamente volta a riconoscere il seme divino che è in lui.

Ma tale ‘purificazione’ che è anche una ‘liberazione’ dal carcere corporeo non può avvenire, di norma, in una sola esistenza. L’anima che precipita nel buio della materia per ascendere di nuovo ha bisogno di numerose esistenze. La metempsicosi è inevitabile ma deve essere intesa come un cammino che può volgere a una meta positiva poiché la liberazione se viene conseguita compiutamente solleva l’anima alla Gioia Suprema propria dell’uomo che conquista la condizione degli dèi: quella dell’Immortalità e della Felicità.

In Terra solo l’iniziato può ‘indiarsi’ ed avere, nell’estasi, cioè quando l’anima riesce ad uscire dal corpo, baluginii di quella Luce. Tuttavia, solo uscendo radicalmente dal ciclo delle nascite (ho kyklos tès ghenéseos) che procede secondo la ruota del Destino (ho tés Moiras trochόs) egli può riconoscersi ‘Figlio di Dio’.

LA DOTTRINA NELLE TESTIMONIANZE
Già gli antichi greci rilevarono una sostanziale coincidenza dottrinaria tra i loro misteri e quelli più augusti e d’origine più remota, quelli egiziani.

Diodoro Siculo, ad esempio, ispirandosi probabilmente a un più antico autore, Ecateo di Abdera (IV sec. A. C.), affermò che Orfeo fu influenzato dai misteri di Osiride conosciuti attraverso un viaggio nel paese del Nilo:

"Orfeo invero portò indietro dagli Egizi la maggior parte delle iniziazioni mistiche, i riti segreti intorno alle sue proprie peregrinazioni e l’invenzione dei miti riguardanti l’Ade. Infatti il rito di iniziazione di Osiride è lo stesso di quello di Dioniso, mentre quello di Iside risulta quasi identico a quello di Demetra, e soltanto i nomi sono scambiati. Egli introdusse poi le punizioni degli empi nell’Ade, le praterie per gli uomini pii e la produzione di immagini suscitate in presenza della moltitudine, imitando ciò che accadeva intorno ai luoghi di sepoltura in Egitto." Diodoro Siculo, I, 96, 4-5

In effetti gli antichi colsero oggettivi punti di contatto tra le due sacre tradizioni: sia per Dioniso che per Osiride il mito raccontava di una fine tragica a causa della lotta di entrambi contro il Principio del Male e del conseguente smembramento dell’Uomo/Dio; inoltre li accomunava il culto fallico (v. correlati), la raffigurazione taurina (v. correlati) e il conclusivo dominio sul Regno dei morti dopo la resurrezione.

La psiche per gli orfici è ‘sepolta’ nel corpo, ovvero una parte di essa, giacché nell’uomo abitano due nature, quella dionisiaca e quella titanica ma per l’uomo che si purifica ci sono già in vita ‘segni’ della sua natura divina; ne veniva considerata come prova, ad esempio, il fatto che nei sogni talvolta ci si palesa il futuro.

Per questo Pindaro dice:

"Il corpo di tutti obbedisce alla morte possente,
e poi rimane ancora vivente un’immagine della vita, poiché solo questa
viene dagli dèi: essa dorme mentre le membra agiscono, ma in molti sogni
mostra ai dormienti ciò che ci è destinato di piacere e sofferenza".
Pindaro, fr. 131 b; Colli, I, p. 127

Olimpiodoro ricorda nel suo Commento al Fedone di Platone (61 c) la vicenda di Dioniso e ricorda che per il suo profeta Orfeo noi siamo ‘parte’ (μέρος – méros) del Dio, del Figlio di Dio:

"Presso Orfeo si tramandano quattro regni: il primo è il regno di Urano, cui succedette Crono… dopo Crono regnò Zeus… in seguito, a Zeus succedette Dioniso: dicono che per macchinazione di Hera i Titani che lo circondarono lo sbranassero e si cibassero delle sue carni. E Zeus, adirato, li fulminò e dal denso fumo dei vapori che si sollevarono da essi formandosi la materia, nacquero gli uomini… infatti noi siamo parte di quel dio".
Olimpiodoro, Commento al Fedone di Platone 61 c

Se l’Uomo ha il ‘divino in sé’, ha una natura ‘divina’, egli può realizzarla compiutamente solo nell’al di là, nel mondo spirituale, dopo essersi separato definitivamente dal corpo; la sua vera vita è oltre questo mondo materiale ma la morte non va temuta dall’iniziato che tramite la sacra teletè è riuscito, già da vivo, ad avere, attraverso l’estasi, esperienza di quel mondo in cui non abita sofferenza e morte.

Per questo Euripide si pone la celebre domanda:

"Chi sa se il vivere non sia morire e il morire invece il vivere?" Euripide, Polydos, fr. 638; cfr. Platone, Gorgia, 492 e

In un celebre passo Platone illustra con efficace sintesi l’essenza del credo orfico, basato sull’equazione: corpo = tomba = segno (cioè manifestazione ‘esterna’, ‘visibile’) = carcere dell’anima. Così dice il grande filosofo ateniese:

"Difatti alcuni dicono che il corpo è tomba (sema) dell’anima, quasi che essa vi sia presentemente sepolta: e poiché con esso l’anima esprime (semainei) tutto ciò che esprime, anche per questo è stato chiamato giustamente ‘segno’ (sema). Tuttavia mi sembra che siano stati soprattutto i seguaci di Orfeo ad aver stabilito questo nome, quasi che l’anima espii le colpe che appunto deve espiare, e abbia intorno a sé, per essere custodita, questo recinto, immagine di una prigione (desmotèrion). Taluni dicono che questo carcere dell’anima è, sinché non abbia pagato i suoi debiti, appunto il corpo (soma), e non c’è niente da cambiare, neanche una sola lettera".
Platone, Cratilo, 400 c

Nella celebre Settima Epistola Platone condivide la dottrina orfica dell’immortalità e del giudizio ultraterreno dell’anima:

"E veramente bisogna sempre credere ai discorsi antichi e sacri (tois palaiois kai ierois logois), i quali appunto ci rivelano che l’anima è immortale, è soggetta a dei giudici e sconta pene grandissime, quando si allontana dal corpo".Platone, Settima Lettera 335 a

Aristotele conferma che secondo l’orfismo la ‘incarnazione’ dell’anima è destinata a durare attraverso il ciclo delle nascite fintantoché essa si purifichi: 

"Considerando questi errori e queste tribolazioni della vita umana, sembra talvolta che abbiano visto qualcosa quegli antichi, sia profeti, sia interpreti dei disegni divini secondo la tradizione sacra e quella iniziatica, i quali hanno detto che noi siamo nati per scontare pene per colpe di vite anteriori, per questo sembra che sia vero ciò che troviamo scritto presso Aristotele, ossia che subiamo un supplizio simile a quello patito da coloro che anticamente, quando cadevano nelle mani dei predoni etruschi, venivano uccisi con una ricercata crudeltà: i corpi vivi di costoro venivano legati più strettamente possibile a corpi di persone morte ponendoli gli uni di faccia agli altri. Allo stesso modo (Aristotele ritiene che) le nostre anime sono unite ai nostri corpi come quei vivi con i morti." Aristotele, Protrettico, fr. 10 b; il testo in Colli, I, p.167; la nostra trad. è leggermente difforme

Uno dei precetti più celebri che caratterizzavano lo ‘stile di vita orfico’ era quello che imponeva l’astensione dal nutrirsi di carni e ciò farebbe pensare che la ‘riforma’ religiosa di Orfeo implicasse un atteggiamento critico nei confronti dei selvaggi riti delle menadi.

Platone stesso nelle Leggi ricorda quell’antica prescrizione:

"…e il contrario sentiamo dire in altre occasioni, quando non si osava neppure gustare la carne di bue, né si sacrificavano animali agli dèi, bensì si offrivano focacce e frutti immersi nel miele e simili sacrifici puri, e quando ci si asteneva dalle carni, ritenendo contrario alla religione il mangiarne e macchiare di sangue gli altari degli dèi: piuttosto gli uomini viventi allora avevano certi modi di vita che si chiamano orfici, rivolgendosi a tutto ciò che non ha vita e astenendosi al contrario da tutti gli esseri animati".
Platone, Leggi, 782 c-d

Ma i documenti più preziosi a noi giunti attestanti la spiritualità orfica sono forse quelli costituiti da iscrizioni incise su laminette auree funerarie rinvenute presso le tombe di alcuni seguaci di Orfeo. In esse ha un ruolo essenziale la dea della Memoria, Mnemosine: è essa che deve far ricordare all’iniziato defunto la sua ‘natura divina’, affrancandolo così dal ciclo umano della nascita/morte ed orientandolo verso il puro Cielo dei Beati.

Le laminette offrono indicazioni al defunto perché esso s’orienti bene nel percorso post-mortem; egli dovrà dichiarare ai giudici dell’al di là la sua ‘natura divina’ ("sono figlio della Terra e del Cielo"), bere nella Palude del Ricordo ritrovandosi così assieme agli altri misti e ai beati:

"Di Mnemosine è questo sepolcro. Quando ti toccherà di morire
andrai alle case ben costruite di Ade: c’è alla destra una fonte,
e accanto a essa un bianco cipresso dritto;
là scendendo si raffreddano le anime dei morti.
A questa fonte non andare neppure troppo vicino;
poi di fronte troverai fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine, e sopra stanno i custodi
che ti chiederanno con il loro spirito severo
cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso.
Di’ loro: Sono figlio della Terra e del Cielo ricco di stelle,
sono arso dalla sete e muoio; ma datemi subito
la fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine.
E si prenderanno pena di te per volere dei giudici di sotterra;
e sicuramente ti lasceranno bere le acque di Mnemosine;
e infine percorrerai una lunga strada, quella stessa sacra che altri
misti e iniziati a Bacco percorrono ricchi di gloria".

Laminetta trovata ad Ipponio; Colli, I, pp. 173-175

In un’altra laminetta rinvenuta a Turi (l’attuale Terranova di Sibari) la defunta seguace di Orfeo si vanta d’appartenere alla stirpe felice degli dèi e descrive la sua morte con parole ricche di pathos. Così si presenta a Proserpina e ai giudici d’oltretomba:

"Vengo pura dai puri, o regina degli inferi,
Eucle ed Eubeo e voi altri dèi immortali,
poiché io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe felice;
ma la Moira mi soverchiò, e altri dèi immortali
………………………. e la folgore scagliata dalle stelle.
Volai via dal cerchio che dà affanno e pesante dolore,
e salii a raggiungere l’anelata corona con i piedi veloci,
poi m’immersi nel grembo della Signora, regina di sotto terra,
e discesi dall’anelata corona con i piedi veloci. (Essi mi dissero):
‘Felice e beatissimo, sarai un dio anziché un mortale’.
Agnello caddi nel latte".

Laminetta trovata a Turi, 1

Bella questa immagine: ‘Agnello caddi nel latte’ con cui s’esprime con forza icastica la condizione mistica della beatitudine, dell’appagamento di ogni umano desiderio di felicità.

Di straordinaria importanza, possiamo ben dire, ‘teoretica’ è un brano di un’opera pseudo-aristotelica in cui compare in modo più esplicito, meno velato dal mito e dal simbolismo, la dottrina orfica su Dio.

Questi infatti viene considerato come semplice figurazione ‘religiosa’ del Principio Primo della Realtà, contemporaneamente Forza originaria, Potenza produttiva, Ordine e Fine dell’ intero Universo:

"Zeus nacque per primo, Zeus dalla fulgente folgore è l’ultimo;
Zeus è la testa, Zeus è il mezzo: da Zeus tutto è compiuto;
Zeus è il fondo della terra e del cielo stellante;
Zeus nacque maschio, Zeus immortale fu fanciulla;
Zeus è il soffio vitale di tutte le cose, Zeus è lo slancio del fuoco infaticabile;
Zeus è la radice del mare; Zeus è il sole e la luna;
Zeus è il re, Zeus dalla fulgente folgore è il dominatore di tutte le cose…"

Pseudo-Aristotele, Sul mondo 401 a 27 – b 7; Colli, op. cit., p. 195

A ben vedere tale brano (se si riferisce all’originaria dottrina orfica) colma del tutto, per così dire, la distinzione, se non addirittura la contrapposizione, che abitualmente si pone tra la Sapienza mitologico-religiosa e la speculazione filosofica originaria della scuola ionica. Infatti Dio è definito l’origine (la ‘testa’), il fondamento (il ‘mezzo’), il fine (da Lui ‘tutto è compiuto’) di tutta la realtà, dunque s’identifica di fatto con l’Archè degli ionici. Per costoro, infatti, il Pricipio Primo non è solo il fondamento ‘materiale’ del Mondo ma anche l’Origine della Vita e della Coscienza presenti nell’intera Natura, il ‘divino’ stesso, l’Uno-Tutto.

DA ORFEO ALLA GNOSI
Come si è visto, per con estrema sintesi, tutta la ‘teologia’, così come tutta ‘l’antropologia’ orfiche sono basate su una concezione che, pur ammettendo un’Origine comune di tutte le cose, di fatto coglie nell’Universo e nell’Uomo una dualità di Principi che sono (quantomeno nella ordinaria percezione umana) in conflitto tra di loro: il Bene contro il Male, lo Spirito contro la Materia. Come sia possibile conciliare ‘razionalmente’ tali concezioni, l’una ‘monistica’ e l’altra ‘dualistica’. non è chiaro dai testi giuntici. Probabilmente in tale situazione ‘contraddittoria’ si vedeva semplicemente (per così dire!) nient’altro che il Mistero stesso dell’Esistenza che nessun uomo per quanto si sforzi può sciogliere con le sue deboli forze intellettuali.

Quel che è certo anche per gli orfici è la condizione ‘ontologica’ dell’uomo palesemente ‘dualistica’, l’uomo vive e soffre di impulsi e bisogni contrari: è un essere vivente ma è certo – e questa è l’unica sua certezza – della propria morte e per questo aspira all’Immortalità; destinato alla Sofferenza ma aspira alla Felicità; così dal punto di vista ‘morale’ esso può ‘abbrutirsi’ nella violenza, dissoluzione, sfrenata passionalità seminando e generando in sé ed intorno a sé dolore ed infelicità, ma può anche, al contrario, ‘indiarsi’, cioè vivere nella luce del Bene, ‘seminare’ gioia, felicità, innalzarsi personalmente alle vette sublimi della Contemplazione.

Può un mondo fatto di realtà così contrapposte avere una sola, unica origine? L’Unità dei due Principi, se c’è, si colloca oltre le nostre possibilità d’intendimento; tuttavia l’Uomo sente che il Bene è da preferire al Male, che quelle due forze antitetiche sono compresenti in lui e che deve nella sua vita fare una scelta tra esse.

Insomma, se il nostro pensiero è monistico, giacché vuole ricondurre tutto ad Unità, la nostra ‘esistenza’ è dualistica, giacché vive il contrasto tra vita e morte, tra bene e male, tra corpo e spirito. Anzi, la crudeltà di questo mondo è già nel ‘semplice’ fatto che per vivere ogni essere si deve nutrire di altri esseri viventi.

Così, se sul piano teorico ogni Diade è stata sempre ricondotta ad una Monade originaria, sul piano pratico, cioè morale, l’unità degli opposti è stata sempre ricercata ed indicata nella regola aurea del ‘giusto mezzo’.

Tale concezione di lotta morale, spirituale, capace di portare l’Uomo oltre la dimensione materiale dell’esistenza non sarà solo caratteristica degli orfici, anzi essa sarà il fondamento di tutta la filosofia ‘metafisica’ greca e pienamente presente nella tradizione speculativa, per fare solo due esempi, dal Fedone di Platone sino alle Enneadi di Plotino.

La stessa ‘Gnosi’ dell’età ellenistico-romana rimarrà su tali posizioni dottrinarie; anzi si può dire che ne sarà la continuazione. Di fatto la ‘sapienza’ esoterica greca non avrà soluzioni di continuità sino al violento intervento del Cristianesimo contro tutte le dottrine e le istituzioni ‘pagane’.

Così efficacemente Ugo Bianchi sintetizza il problema del rapporto tra monismo e dualismo nella tradizione orfica :

"Questa scienza e sapienza, questa ‘gnosi’ dell’uomo, questa antroposofia, si fonda sopra un principio dualistico. L’uomo è costituito di due elementi, uno divino-spirituale e l’altro ‘somatico’. Il corpo è la prigione dell’anima, o, secondo un’altra più drastica dizione, che non si può senz’altro attribuire agli orfici, ma che appartiene alla medesima mentalità, addirittura la sua ‘tomba’. Scopo dell’uomo è quello di liberare l’elemento divino (quello che gli gnostici chiameranno ‘pneumatico’) dall’elemento somatico, di operare cioè una purificazione, con pratiche, appunto, ‘catartiche’; questa purificazione, che concerne la parte divina dell’uomo, ma prescinde dall’uomo come totalità personale e singolare, perciò irripetibile, di spirito e materia, si realizza attraverso una serie di vicende, di reincarnazioni o metensomatosi… S’intende che, se da una parte l’uomo è scisso in due, irrimediabilmente, dall’altro canto la parte immortale dell’uomo si integra nel divino: anzi è divina; si direbbe: ‘consustanziale’ alla divinità. In questo senso, e in rispetto alla parte divina dell’uomo, l’orfismo e l’antroposofia orfica implicano un (almeno tendenziale e parziale) monismo: l’uomo appartiene per natura, nella parte nobile, al mondo degli dèi: alla famiglia degli dèi…"
U. Bianchi, La religione greca, Torino, 1975, pp. 45-46

Ma accanto a questa unità di origine (mitologicamente espressa dal racconto della loro comune origine da Urano e Gaia) le stesse laminette funerarie orfiche sottolineano il fatto che gli esseri umani, in quanto tali, cioè in quanto esseri la cui coscienza è ‘vincolata’ al corpo/materia sono soggetti alla Moira, cioè al duro destino fissato dalle leggi di natura.

Tali concezioni feconderanno la cultura greca ed in particolare la filosofia.

Anche per Platone l’anima (o, almeno, una parte di essa, quella più nobile) è precipitata dal mondo ‘iperuranio’, cioè dal piano metafisico, nel nostro mondo ed in esso deve ritornare fintantoché non si purifichi (si pensi al suo ‘mito’ di Er).

Lo stesso Platone farà pronunciare a Socrate poco prima della morte a cui era stato ingiustamente condannato un discorso tutto improntato all’antica dottrina degli orfici ed in cui chiaramente il Maestro parla anche della sua ‘tecnica’ iniziatica, quella che evidentemente utilizzava quando si appartava, come era abituato a fare secondo la stesso testimonianza platonica, diventando del tutto insensibile alle circostanze esterne come un qualsiasi yoghin indiano:

"… questo viaggio che mi viene comandato si compie con buona speranza e per me e per chiunque altro ritenga di aver preparato la coscienza in modo da averla purificata. E la purificazione, com’è detto in una antica dottrina, non sta forse nel separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla a raccogliersi e a restare sola in sé medesima, sciolta dai vincoli del corpo, e a rimanere per il tempo presente e futuro sola in se medesima, sciolta dal corpo come da catene?"
Platone, Fedone, 67 c-d

Su questa medesima linea di pensiero si collocherà la gnosi, secondo la quale l’uomo per riscattarsi deve riattraversare in direzione ascendente le sette sfere planetarie attraverso le quali è precipitato nel basso del nostro mondo materiale.

E non sarà lo stesso Plotino a concepire l’estasi come un ‘ritorno’ dell’anima all’Uno, cioè al Puro Spirito da cui tutto è stato ‘emanato’, persino la materia?

La sapienza ‘orfica’, in conclusione, s’identifica nei suoi assunti con la sapienza ‘esoterica’ greca, e questa a sua volta è la sostanza stessa della ‘filosofia epoptica’ dell’Ellade.
di Attilio Quattrocchi


Fonte: Articolo pubblicato sul sito Accademia Platonica
Tratto da: www.anticorpi.info
 

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