Spiritualità

Il concetto di “liberazione” nelle principali religioni

di Patrizia Moschin Calvi

Alone_in_the_End_by_FatherofGod.pngConsideriamo per prima cosa quella che è la Suprema Realtà, da cui tutto parte e a cui tutto ritorna, il Sé Universale, principio vitale, Verità Assoluta e pura beatitudine, concetto che viene spesso compendiato con Sat Cit Ananda, che ha come caratteristiche la permanenza, l’unità e l’azione incessante. Esso rimane inalterato e libero da nascita e morte, poiché non soggetto alla transitorietà del mondo materiale o empirico, incompatibile con quell’Esistenza che è la vera e pura essenza del Tutto, fondamento universale di ogni cosa. Esso contiene in sé tutti gli esseri, tutte le azioni e la coscienza in tutti i suoi stati.

Tale è il Brahman, nell’universo, mentre lo stesso principio in noi è Atman, anima cosmica, emanazione del principio vitale che risiede in ogni creatura. Nella Chandogya Upanisad (III, XIV, 1-4) viene così definito: “Il Sé intelligente, il cui corpo è l’universo, la cui forma è luce, i cui pensieri sono verità, la cui natura è eterea (onnipresente) e invisibile, da cui provengono tutte le azioni, tutti i desideri, tutti i profumi e tutti i sapori, abbraccia tutto l’universo, non parla ed è indifferente… Esso è il mio Sé all’interno del mio cuore, più piccolo di un chicco di riso, più piccolo di un seme d’orzo, più piccolo di un seme di sesamo, più piccolo di un seme di miglio o del nucleo di un seme di miglio. Esso è il mio Sé all’interno del mio cuore, più grande della terra, più grande del cielo, più grande dello spazio atmosferico, più grande di tutti i mondi messi assieme”. Secondo i veggenti delle Upanishad la liberazione scaturisce proprio dalla conoscenza del Brahman, e viene favorita da jnana, la conoscenza del Sé, che al Brahhman consente di avvicinarsi, per diventare con esso una cosa sola, poiché non possiamo percepire e conoscere il Sé Universale, data la sua natura, almeno finché siamo immersi nella illusione di maya. Recita infatti la Chandogya Upanishad: “La beatitudine è infinita, ma non c’è beatitudine nelle cose finite” (VII, 24) e la Katha Upanishad aggiunge: “Gli uomini saggi, che conoscono la natura di ciò che è immortale, non cercano quaggiù le cose eterne tra le cose transitorie” (IV, 2). La liberazione nell’induismo viene rappresentata con la parola mukti, che significa “libertà dalle rinascite”, da ciò che è transitorio, assunto che presuppone la teoria della reincarnazione ovvero la trasmigrazione dell’anima da un corpo ad un altro, indissolubilmente legata a quella del karma, legge di causalità, che determina con la sua infallibile giustizia il corso delle nostre esistenze. La diffusione di tale dottrina, che vede l’essere soffrire in un infinito cerchio di morti e rinascite, ha indotto la ricerca di una soluzione al problema della salvezza. E salvezza, liberazione, viene considerata appunto l’unione dell’Uomo col Sé Universale, come le gocce di rugiada che si dissolvono nel mare di splendore. Tale ricongiungimento, nella sua essenza, è contenuto nel celeberrimo versetto sanscrito Tat tvam asi (Tu sei Quello). Questa via di conoscenza afferma che salvezza coincide con la presa di coscienza dell’individuo (atman, ovvero “il sé”) di essere – al di là delle apparenze – un’unica ed identica realtà con la sostanza universale, brahma. E’ pertanto importante seguire una vita basata su principi morali ed etici, per il conseguimento della piena coscienza del Sé. Ma mentre le Upanishad propongono una via salvifica che passa attraverso la conoscenza, cammino che non tutti possono essere in grado di seguire, con la Bhagavad Gita si arriva ad un approccio più “umano”, la via del servizio amorevole o della devozione, detta bhakti, in cui l’uomo si autoredime con l’incondizionata e imperitura dedizione verso un Dio universale di cui Krsna era ritenuto una delle incarnazioni. “Secondo Ramanuja (1017-1137) il grande teologo e mistico visnuita, le parole conclusive di Krsna nella Gita riassumono l’intero messaggio della bhakti: ‘Abbandona ogni forma di religione e di legge religiosa (sarva –dharman) vieni e rifugiati in Me. Io ti libererò da tutti i peccati. Non temere’ (Gita, XVIII, 66)”1. E ancora dalla Gita: “Anche coloro che sono di bassa nascita possono (mediante la devozione a Krsna) raggiungere il supremo obiettivo” (IX, 32). E a questo punto non possiamo che fermarci a considerare anche la dimensione salvifica del cristianesimo, che ha notevoli punti di contatto con questi ultimi messaggi. Il cristianesimo infatti considera l’avvento del Cristo, ovvero il fatto che Dio dona vita eterna perché Gesù Cristo ha espiato per i nostri peccati. Troviamo per esempio nella Lettera di san Paolo agli Efesini: “E’ per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti" (2:5,8-9). Oppure: "Ma quando la bontà di Dio nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati, egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il bagno della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo, che egli ha sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore, affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna". (Tito 3:4-7). Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica la salvezza non è solo una liberazione passiva del peccato (peccato originale e peccato attuale) e dai suoi effetti: “L’azione di Dio è una liberazione attiva che eleva gli esseri umani ad uno stato sovrannaturale, alla vita eterna, in un piano spirituale superiore alla vita terrena, per unirsi in un solo corpo mistico con Cristo, una delle tre Persone della Trinità e accedere alla dignità di figli di Dio, per vederlo ‘come egli è’ (Prima Lettera di Giovanni, 3:2), in comunione di vita e amore con la Trinità e tutti i santi”. Consideriamo ora l’aspetto salvifico nell’Islam: il proposito dell’esistenza dei musulmani è vivere in modo da compiacere Allah, per poter guadagnare il Paradiso. L’Islam si considera una vera via di redenzione che non ammette alcuna mediazione e quindi alcun mediatore della salvezza, perché esso proviene esclusivamente da Allah il misericordioso. Per l’Islam, l’umanità è segnata sin da Adamo dal peccato di ribellione a Dio, ovvero dalla mancanza di sottomissione. Allah il misericordioso però ha avuto pietà degli uomini ed ha inviato loro i profeti, tra i quali i musulmani annoverano anche Gesù. Ultimo di tutti i profeti, e loro sigillo, è Muhammad (Maometto). “Il vocabolario della salvezza merita una riflessione, in quanto nell’Islam essa è data nel momento in cui Allah, mediante il Corano, detta una progettazione concreta dell’esistenza dell’uomo; si tratta di una salvezza rispetto all’incertezza, alla possibilità di dispersione, di disorientamento, di smarrimento della ricerca dell’uomo. La progettazione divina assicura alla ummah (comunità islamica) la “riuscita” (falah) e la “vittoria” (fawz), se i musulmani si attengono alle pratiche e agli atti comandati e si astengono dalle azioni proibite. Si potrebbe dire che il momento più importante del processo salvifico sta nell’originale guida data e garantita da Allah, cui consegue l’applicazione individuale del musulmano al fine di conformarsi alla progettazione. Qui si riapre il capitolo dell’antropologia e della storicità, che non possono travalicare e rendersi autonomi rispetto alla via coranica”2.  Possiamo quindi parlare, nella configurazione islamica dell’uomo, di una sua totale sottomissione, ovviamente a Dio (la parola islam viene infatti tradotta con questo significato – sottomissione – e deriva dalla radice “slm” ovvero “essere salvato”) e alla prassi coranica che garantisce trascendentalmente un “ordine” civico-sociale. Terminiamo l’excursus sulle religioni monoteistiche con l’ebraismo: esso, fedele all’Antico Testamento, riconosce che la religione ebraica è legata ad un popolo preciso, eletto da Dio, con il quale l’Altissimo ha stretto un’alleanza e al quale ha promesso una “terra”. La salvezza del Dio di Israele avviene dunque “in forma nazionale” perché Egli arriva per salvare il suo popolo (Talmud, ca. 228-428). Successivamente, con la mistica della Qabbalah (XII sec.) e il suo insegnamento esoterico viene però introdotta l’esperienza salvifica attraverso il contatto diretto dell’essere umano con Dio, frutto quindi della sua iniziativa personale, che si distingue dalla redenzione del popolo, quale iniziativa divina. “La terra promessa da Dio ad Israele coincide certo con la Palestina, ma soprattutto si identifica con un’esistenza liberata da Dio e liberante per l’uomo, vissuta nella fedeltà a Dio attraverso l’osservanza della santa legge”3. Torniamo in India per valutare l’eredità filosofica del giainismo, che insegna essere moksa, la totale liberazione dalle rinascite, e quindi da ogni sofferenza, lo scopo ultimo della vita. Esiste quindi una via d’uscita, via di salvezza e redenzione, che può essere ottenuta da ogni essere umano, compresi sudra e intoccabili, se ci si impegna ad una vita di austerità, evitando di farsi schiavi di pensieri e desideri peccaminosi e di recare danno agli altri, sia con pensieri che parole o azioni. I jaina infatti, tenendo fede al comandamento supremo dell’ahimsa (non violenza), che vieta di danneggiare e uccidere qualsiasi essere vivente, non compiono sacrifici, né cruenti né incruenti, pretendendo piuttosto dai loro seguaci che aspirano alla salvezza (jina significa infatti “il vincitore”, colui che vince l’ignoranza e la sofferenza) lo sforzo strenuo nel dominio dei sensi per “arrestare gradualmente l’influsso di nuova materia estranea all’anima. Infatti sono le particelle karmiche che intervengono a formare il jiva (o anima) che ne oscurano la visione metafisica delle cose e impediscono così la vera conoscenza, senza la quale è impossibile una retta regola di vita”4. Nessun’altra religione indiana pone tanto l’accento sull’ascetismo, la rinuncia e la vita monastica, per la liberazione, quanto quella jaina. Controllando la natura inferiore e materiale dell’uomo grazie alle forze dello spirito latenti, si evita di formare nuovo karma e si arriva all’autopurificazione, alla rigenerazione frutto dei precetti del triplice sentiero: retta fede, retta conoscenza e retta condotta. Filosofia affine al giainismo è quella buddhista, che nella sua essenza è pure una via di liberazione dalla sofferenza delle nascite e delle morti, e il cui punto nodale è rappresentato dal fatto che ciascuno è il redentore di se stesso. Dio non può salvare l’uomo, in quanto la salvezza diventa una conquista strettamente personale ed individuale. A questo scopo la vita dei buddhisti è consacrata al conseguimento del nirvana (di cui si parla in un inno del Dhammapada) cui si giunge tenendosi lontani da estremi opposti quali l’autoindulgenza e la severa mortificazione, mantenendo la “via di mezzo” che serve ad estinguere ogni desiderio egoistico, ed è compendiata nel Nobile Ottuplice Sentiero: retta fede, retta determinazione, retto parlare, retta condotta, retto modo di guadagnare i mezzi di sussistenza,retta memoria, retta meditazione e retta concentrazione. Così disse il Buddha al riguardo: “Siate luce a voi stessi, siate rifugio a voi stessi. Tenetevi saldi alla Verità come ad un rifugio, non a coloro che vi stanno accanto. Vivete in quell’isola, tenetevi saldi alla dottrina come rifugio e a null’altro”. Sebbene per sommi capi, poiché all’interno di ogni sistema di pensiero vi sono correnti, scuole e teorie che si differenziano le une dalle altre, abbiamo però potuto constatare che i principali sistemi di pensiero religioso si pongono come mediatori di liberazione per i loro seguaci, pur con schemi salvifici diversi, ma sempre nell’impegno effettivo a sollevare le pene dell’umanità sofferente, nel tentativo di promuoverne la felicità. I risultati di tali pratiche – e non mi riferisco a una religione in particolare, ma a tutte globalmente – sono però sotto gli occhi di tutti: il mondo non ha pace e stenta ancora, dopo tanti millenni, a trovare una via per la convivenza armonica, la concordia e l’unione fraterna. Infatti, come spesso ha affermato Krishnamurti, qualsiasi organizzazione che cerchi di propagare “la verità” attraverso credi, conformismo o propaganda, serve solo a condizionare ancora di più la mente dell’individuo e a renderlo schiavo e non sarà dipendendo da una religione o da un guru che egli troverà la sua dimensione spirituale, poiché la verità è una terra senza sentieri e nessun libro, credo o maestro ve lo potrà condurre. Il ruolo del maestro è per l’appunto quello del lampione lungo la strada: non dobbiamo sederci ad adorarlo ma procedere nel nostro cammino, lungo la via dello spirito. Egli ci può dare delle indicazioni, mentre siamo noi che le dobbiamo mettere in pratica, facendo attenzione a non farci condizionare da pregiudizi, credi, convinzioni che, distorcendo la nostra visione, ci impediscono di cogliere la giusta prospettiva delle cose. Il messaggio di Krishnamurti è rivolto alla liberazione interiore dell’uomo, come premessa indispensabile per l’apprendimento dell’arte di vivere: “Vogliamo sapere la verità sulla reincarnazione, vogliamo provare la sopravvivenza dell’anima, diamo ascolto alle affermazioni delle chiromanti e alle conclusioni delle ricerche psichiche, ma non ci chiediamo mai, mai, come vivere – vivere con felicità, con incanto, con bellezza ogni giorno”5. E ancora: “Tutti voi credete in modi diversi, ma la vostra fede non ha alcuna realtà. La realtà è ciò che voi siete, ciò che fate, ciò che pensate e la vostra fede in Dio è puramente una fuga dalla vostra vita monotona … Finché la mente non sarà in silenzio, finché il pensiero, in una qualsiasi forma, sia conscia che inconscia, sarà in movimento, silenzio non ci potrà essere. Il silenzio è libertà rispetto al passato, alla conoscenza, alla memoria sia conscia che inconscia; quando la mente starà in perfetto silenzio, quando non funzionerà, quando vi sarà quel silenzio che non nasce da uno sforzo, allora soltanto nascerà ciò che è fuori del tempo, l’eterno”6. Tutto quello che non sperimentiamo direttamente, tutto il resto, non è la verità ma una descrizione della stessa. E quando avremo raggiunto questa consapevolezza, un immenso afflato compassionevole e fraterno ci unirà a tutti gli esseri, in un abbraccio infinito che annulla ogni differenza e distanza, nel puro spirito della Fratellanza Universale senza distinzioni.

Note:
1. Anthony Elenjimittam, Mukti – la liberazione nella filosofia indiana, Mursia editore.
2. “Il Cristiano alle porte dell’Islam”, articolo del prof. Giuseppe Rizzardi, Docente di Islamologia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale – Milano.
3. Mauro Gagliardi, Salvezza, Redenzione, Giustificazione. Nel Cristianesimo e nelle principali religioni (prima parte), note che riprendono ed ampliano la materia di due lezioni tenute dall’autore presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, nell’ambito del Master in Chiesa, Ecumenismo e Religioni.
4. Anthony Elenjimittam, Mukti – la liberazione nella filosofia indiana, Mursia editore.
5. Jiddu Krishnamurti, Libertà dal conosciuto, Ubaldini Editore, Roma 1973.
6. Jiddu Krishnamurti, La prima ed ultima libertà, Ubaldini Editore, Roma 1969.

di Patrizia Moschin Calvi

Tratto da: mikeplato.myblog.it

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